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Si possono osservare le tragedie del presente con sguardo poetico? È la domanda che sembra serpeggiare tra le opere in esposizione per “May You Live in Interesting Times”, la mostra curata da Ralph Rugoff per il padiglione centrale ai Giardini della 58ma Biennale di Venezia, che abbiamo appena visitato in anteprima.
Il percorso si apre in maniera conturbante e ambigua, giocando su diverse gradazioni di invisibilità. Superati i fitti strati di nebbia con i quali Lara Favaretto ha avvolto lo spazio ai Giardini e che lasciano tracce di umidità sul corpo e sui vestiti, dobbiamo procedere radente al muro, completamente abbagliati da una luce accecante, per attraversare il tunnel di Ryoji Ikeda. Oltrepassata questa sorta di doppia soglia, ci si addentra nel flusso dei Tempi Interessanti descritti da Rugoff, scanditi da quelle problematiche dell’attualità più discusse sui mezzi di informazioni e che ci si aspetterebbe di trovare, qui affrontate secondo una prospettiva storica, antropologica e, ovviamente, estetica.
Augustas Serapinas costruisce un’architettura futuribile, riutilizzando i mattoni di una centrale nucleare della Lituania. Ancora una struttura architettonica, questa volta il muro di Teresa Margolles, macabro ricordo di Ciudad Juárez. E poi il progetto elegante ma a tratti didascalico di Zhanna Kadirova, che ha usato le piastrelle di alcuni alberghi di Venezia per realizzare dei “vestitini murali” appesi a uno stendino ad asciugare, per ricordare la storia della città. Di impatto e sicuramente tra le opere più fotografate, Can’t Help Myself, un grande robot di Sun Yuan & Peng Yu che mima i movimenti umani per spostare ininterrottamente un liquido rossastro gelatinoso, a ricordarci che le idee non possono essere contenute in alcun modo, invitandoci a uscire dagli schemi prestabiliti.
Tanta pittura dal tema distopico di buon livello, come quella di Nicole Eisenman, di Jean-Luc Moulène, che rappresenta l’impossibilità della tecnologia 3D nel ricalcare le statue classiche, di Jill Mulleady, che scava nel baratro alienante dei selfie e di Henry Taylor, che descrive polemicamente la condizione degli afroamericani.
Ritroviamo con piacere Tavares Henderson Strachan, che avevamo visto alla 55ma edizione della Biennale, per la prima partecipazione delle Bahamas. In questa occasione presenta un progetto incentrato sulla catalogazione di 15mila voci mai registrate nelle enciclopedie della Britannica, considerata da Strachan l’apoteosi della cultura imperialistica.
Sul tema ambientale riflette Jimmie Durham, con la sua serpentinite verde che, dall’India, passando per Berlino, è stata infine portata a Venezia, causando, nella sua pura bellezza – che l’artista cherokee sceglie di mostrare intatta, incorniciata nel nudo acciaio – un lungo percorso di inquinamento. Precaria e instabile come la nostra società è l’installazione di Nairy Baghramian, tenuta insieme da morsetti, colla e sughero. Introspettivi e sofferenti sono i contenitori a forma di cassa toracica nei quali Andra Ursuta, che abbiamo recentemente visto alla Fondazione Sandretto, ha raccolto rifiuti e oggetti trovati e avanzati durante il periodo del suo divorzio.
C’è poi il gender che si incrocia con il corpo, nelle fotografie di Zanele Muholi e Mari Katayama, che diventa un essere onirico con le sue escrescenze di tessuto, innestate come protesi per gli arti mancanti. Ancora la fisicità in Disaster Under the Sun, bel video di Jon Rafman che mostra delle figure antropomorfe lanciate da pale meccaniche, sullo sfondo di uno scenario tra il solare e il lunare.
Rugoff ha scelto di prestare una certa attenzione anche alle “nuove” geografie. Relazionale e socialmente impegnato è il lavoro di Gauri Gill, che ha coinvolto artisti e artigiani Adivasi, abitanti nelle zone più povere dell’India, nella costruzione di maschere di cartapesta. Sono scene di ordinaria violenza, capitate durante le elezioni del 2017 in Kenya, quelle che compaiono nei disegni di Michael Armitage, recentemente sempre alla Fondazione Sandretto.
Densa e lirica, mainstream, l’esposizione è pulita e ordinata. Qualcuno potrebbe dire politicamente corretta, pur nel suo essere “aperta”.