09 maggio 2019

58 Biennale/8. All’Arsenale “tempi interessanti” invadenti e al limite del collasso

 

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Gli artisti si “ripetono” tra il Padiglione centrale dei Giardini e l’Arsenale. Già, da una parte e dall’altra sono gli stessi 79 che compongono la lista di Rugoff per rappresentare i nostri tempi interessanti.

Solo che al Padiglione centrale sono in formato “museo”, ordinate, schematiche a tracciare la linea di pensiero di Rugoff; all’Arsenale, invece, “esplodono”.

Anche in questo caso i temi sono quelli più caldi e drammatici dei nostri tempi, sui quali si muove la nostra storia contemporanea: poesia imprigionata che risuona nell’aria, nell’installazione di Shilpa Gupta; la realtà che non collima con il desiderio, o il tradimento delle aspettative del giovane cinese (1984) Nabuqi (in home page); la sessualità esplorata da Martine Gutierrez, nell’abbraccio di manichini, tra estasi e turbamento, tra ironia e impassibilità; la memoria della dittatura militare di Lee Bul, con una sorta di antenna televisiva, una torre modernista, costruita con i detriti del primo checkpoint che divideva l’area della Corea del Nord e del Sud; le maschere alpine tra macabro, grottesco e surreale di Cameron Jamie; l’impossibilità di raggiungere completezza e perfezione nella “natura morta” (sopra) con creta di Maria Loboda.

Splendida l’installazione della tedesca Alexandra Bircken con le sue figure in latex nero disposte su una serie di scale che arrivano dal pavimento alle volte dell’Arsenale, a sceneggiare una “lotta in salita” tra paradiso e inferno, successo e fallimento, speranza e disperazione. Probabilmente la più suggestiva di tutta la mostra. Lirica l’installazione tra scultura e sound art di Tarek Atoui, a partire da un viaggio durato cinque anni che l’artista ha intrapreso lungo il fiume delle perle in Cina, annotando osservazioni sulle pratiche agricole, architettoniche e musicali che sono state poi interpretate da un gruppo di artigiani che hanno costruito una serie di strumenti che suonano come automi. Bella la sala dedicata al leone d’oro Jimmie Durham, in una mostra precisa che “mostra” i nostri tempi in una versione che più muscolare non si può; nevrotica, concitata, che investe lo spettatore e dall’ingresso all’ultima sala non lascia spazio al respiro, né tantomeno alla possibilità di una riflessione. Che arriverà, forse, al momento della riemersione. 

Sintomo dei nostri tempi, forse.

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