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Cosa hanno in comune le opere di Marcel Duchamp, Piero Manzoni, Michelangelo Pistoletto, Alberto Burri, Mimmo Rotella, Tony Cragg e Damien Hirst? Sono rifiuti, nel senso buono ovviamente. Oggetti d’uso comune, scarti da processi industriali, intorno ai quali si è sviluppata una linea estetica ed etica che va dal Novecento a oggi. A evidenziarne la traccia, “RE.USE. Scarti, oggetti ed ecologia nell’arte contemporanea”, mostra che, da 24 ottobre 2018 al 10 febbraio 2019, sarà dislocata in tre spazi espositivi di Treviso, di cui due museali, quali il Museo Santa Caterina e il Museo Casa Robegan, e uno privato, il piano nobile di Ca’ dei Ricchi. Il progetto è organizzato dall’Associazione TRA Treviso Ricerca Arte e realizzato in collaborazione con il Comune di Treviso. Ecco qualche anticipazione del curatore, Valerio Dehò.
Un viaggio nella storia dell’arte del riuso, da Marcel Duchamp a Damien Hirst. Cosa vedremo?
‹‹Tante opere e tante storie, andremo anche oltre Damien Hirst perché arriveremo alla generazione dei trentenni ad artisti come Armando Lulay o Giuseppe La Spada. Il progetto nasce attorno al rapporto tra l’arte e gli oggetti, un tema molto vasto e basilare per tutto il Novecento. Progressivamente gli oggetti diventano trash, già negli anni cinquanta con il New Dada e fino ai Noveaux realistes. Non vi è solo la capacità dell’artista di diventare sempre più trasformatore della materia e non si tratta più di esporre oggetti comuni e prodotti industriali come opere d’arte. Si tratta di aprire una riflessione sul significato del rifiuto, dello scarto in una società di massa che è condannata a produrre all’infinito. Si denuncia l’anima del capitalismo e di cosa possono fare gli artisti per rivelare i meccanismi della produzione e del consumo. L’arte si fa politica. La nascita di una coscienza ecologica appartiene agli anni sessanta e agli inizi dei settanta, Giuseppe Penone o Gina Pane spostano il punto di vista nella Natura. Verificano la distanza tra l’uomo e l’ambiente, la misurano, concretamente, non si fidano della scienza. Negli anni settanta nascono i partiti ecologisti. Mentre oggi le nuove generazioni partecipano con il loro linguaggio ad una denuncia a 360° del pericolo di una catastrofe ambientale. Come a dire che non è successo niente e che a discapito di quello che gli artisti e gli ecologisti avevano anticipato, la grande politica se n’è infischiata. Sappiamo tutti delle posizioni di un Trump a proposito››.
Quanto è importante la dimensione del recupero del quotidiano, nell’elaborazione artistica?
‹‹È fondamentale perché ormai è diventata una sorta di tradizione ed è un modo per unire l’etica all’estetica. Il materiale vissuto è spesso più bello, ha su di sé dei significati straordinari e non completamente espressi. Vi è il mondo degli oggetti che attende e ci interroga, ma è il rapporto linguistico tra “cosa” e “merce” che continua a sviluppare senso. Come classificare le opere d’arte, in quale categoria? Forse in nessuna delle due, in qualcosa che ha a che vedere con l’antropologia e che crea un’isola nel tempo. Se ogni produzione ha degli scarti, la produzione artistica cosa fa realmente? Le idee si possono rottamare o hanno solo delle trasformazioni che non le annullano mai del tutto?››.
In un’epoca di post consumismo, cosa ci può suggerire la nozione di trasformazione?
‹‹Appunto il problema che la mostra solleva è quello di andare a guardare con molta semplicità nelle poetiche e nelle estetiche del Novecento. Termini come alchimia o trasmutazione non dicono niente usati come etichette. Lo abbiamo visto con Duchamp e con quello che Arturo Schwarz ha cercato di fargli dire. Gli artisti ereditano dalla tradizione ermetica la capacità di fondere lo spirituale con il materiale. Ma bisogna essere bravi davvero e avere una cultura superiore. Tinguely vestiva da operaio con la tuta e ha inventato un universo di macchine celibi. Si sporcava le mani, come gli alchimisti che rischiavano la vita per cercare la pietra filosofale. Per amare lo spirito bisogna conoscere la materia. Gli artisti devono ripartire da questo, altrimenti l’arte diventa, come è già largamente accaduto, un gioco di società utile solo a chi vi partecipa. Cosa c’è nel post consumismo? Altri consumi, forse. Per questo gli artisti devono far urlare la materia, è l’unico modo per farsi sentire ed esistere››.