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Era stato l’architetto della rinascita di Milano, nel Dopoguerra. Quella stessa seconda guerra che l’aveva costretto a scappare in Svizzera, visto che si era rifiutato di aderire alla Repubblica di Salò. Luigi Caccia Dominioni, poi, tornò nel capoluogo lombardo, e aprì il suo studio nel palazzo di casa, in piazza Sant’Ambrogio; palazzo che a sua volta era stato bombardato, e che l’architetto ricostruì seguendo le antiche tracce della residenza.
«La città gli deve molto, soprattutto il fatto di essere punteggiata dalle sue architetture che hanno stabilito, dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, le qualità della sua eleganza. Sulla sua esperienza Milano deve continuare a costruire se stessa, nel nome della bellezza e della qualità del vivere», ha scritto in memoria il Sindaco, Giuseppe Sala.
Caccia Dominioni, insomma – che di anni ne aveva 102 – è stato un’icona dell’architettura milanese, e insieme a Ignazio Gardella e Corrado Corradi Dell’Acqua nel 1947 fondò anche la “Azucena”, ditta di produzione artigianale di arredi e oggetti di design.
Poi vennero i palazzi: quello di piazza Carbonari (1960/61), in via Santa Maria alla Porta (1961), il complesso residenziale a San Felice, con Vico Magistretti, alle porte di Milano (1967/75), i condomini di via Nievo (1955), di via Massena (1958-63) e di via XX Settembre (1958-64), oltre che la sistemazione di piazza San Babila a Milano (1997), solo per citarne alcune. Lasciata Milano da 40 anni (viveva nel Principato di Monaco), Caccia Dominioni diceva: «Io sono un piantista: nel senso che sulla pianta ci sono, ci muoio, sia che si tratti di un palazzo per uffici che di un appartamento di sessanta metri quadri. Sono architetto sino in fondo e trovo l’urbanistica ovunque. In realtà l’appartamento è una microcittà, con i suoi percorsi, i suoi vincoli, gli spazi sociali e quelli privati. Mi sono sempre appassionato agli spazi piccoli e ho sempre dato l’anima per farli sembrare più grandi».
Con spigoli vivi, marmi, piante squadrate, nel segno di una città che saliva, e che doveva “fare” con rigore, per rimettere in moto anche l’Italia.