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Verbier è una rinomata località sciistica dello svizzero Canton Vallese. Gli impianti di risalita si spingono fino a 3300 metri, ma d’estate le alte vette che si possono ammirare sono anzitutto musicali. Da 26 anni – e nel 2019 tra il 18 luglio e il 3 agosto – il Verbier Festival porta in montagna alcune fra le star della grande musica. La cosa è resa possibile dalla sinergia fra mecenati privati (Les Amis du Verbier Festival), accoglienza turistica e municipalità.
La presenza russa degli artisti invitati, benedetta dalla bacchetta magica del direttore Valery Gergiev, marca la programmazione. C’è poi un altro aspetto che rende questa manifestazione non solo attraente, ma anche importante. Si sa che Gergiev è un talent scout e preme molto al fondatore del Festival, l’infaticabile Martin T:son Engstroem, l’attenzione per i più giovani, sia il pubblico (i biglietti a prezzo intero si fanno a buon mercato per gli studenti), ma soprattutto i talenti musicali che, grazie a borse di studio, frequentano masterclass con nomi di alto profilo. Tra gli italiani invitati, il direttore Fabio Luisi e il soprano Barbara Frittoli. A ciò si aggiunga la preparazione dell’orchestra giovanile del Festival (VFJO), 41 componenti, 4 italiani. Si crea così un circolo virtuoso che consente ai migliori di essere riproposti in recital nel programma principale.
Ecco allora il versatile pianista Yoav Levanon: Chopin e Rachmaninov, in mezzo il raro Medtner, poi, cappello sulle ventitré in testa, un bis in stile jazzistico. Sempre il pomeriggio (la media è di tre concerti al giorno), la sedicenne violinista Maria Dueñas in duo con Ken Noda: un’intensa Sonata di Franck e una sanguigna Tzigane raveliana che esalta l’ispanicità dell’interprete.
Ma eran solo i primi giorni, quelli del Quartetto Arod, ragazzi capaci di lasciare un segno interpretativo in ognuno dei capolavori di tre diversi autori, Webern, Bartok (Quarto Quartetto) e Brahms. O d’un trio armeno di cui si sentirà parlare, Bouchov/Hakhnazaryan/Abduraimov. Emozionante il loro Dumky Trio di Dvorak. Anagrafe giovanile che si ritrova anche nell’Orchestra da camera del Festival, diretta da Gábor Takács-Nagy. Nel suo primo concerto s’è prodotta in una solida lettura della Seconda sinfonia di Brahms; nel secondo, dopo il Concerto Dolce dell’ex-sovietico Rodion Shchedrin (classe 1932, presente e salutato alla fine) che riesce bene a sublimare evanescenza ed eclettismo, s’affianca e lascia spazio a uno dei mattatori del festival, Daniil Trifonov, e al suo maestro, Sergei Babayan.
Giovane anche Trifonov: 28 anni, uno dei più grandi pianisti in attività. Da ragazzo si era fatto conoscere in Italia, ma è in pochi mesi, fra il 2010 e l’11, che si afferma in alcuni fra i principali concorsi pianistici nel mondo. Lo si è potuto ascoltare in tre diversi momenti: sensibile camerista nello schumanniano Andante con variazioni – peccato per la location, l’enorme Salle des Combins – e, sempre à deux piano con Babayan, in due concerti: la versione per tastiere del concerto per due violini di Bach e il mozartiano K 365.
Ma il momento clou, attesissimo, nella piccola ma più felice acustica dell’Eglise, un recital dal programma originale, complesso per l’esecutore come per il pubblico. Un vero e proprio viaggio musicale fra pietre miliari pianistiche dell’ultimo secolo di autori europei storicizzati (Berg, Bartók, Prokof’ev, Messiaen, Ligeti, Stockhausen) alternate a tre autori statunitensi (Copland, Adam, Corigliano). La forza captante, scontata la necessità d’una empatica concentrazione, ha fatto del concerto una sorta di rito (partitura sul leggio, nessuna pausa fra un pezzo e l’altro), un’esperienza d’ascolto rara, sorprendente. Trifonov è riuscito a mettere in luce risonanze/rilucenze fra brani con provenienze e prospettive distantissime, scelti con dosaggio alchemico.
Due giorni prima di spostarsi a Bayreuth per l’apertura del festival wagneriano, Gergiev ha offerto una versione da concerto della straussiana Frau ohne Schatten (La donna senz’ombra), immane partitura, teatro di un confronto fra il mito e i suoi simboli da un lato e umanissime vicende dall’altro. I tre nuovi cantanti per altrettanti ruoli vocali hanno ben rimpiazzato in corsa le più note prime scelte. Anche qui elementi giovanissimi tra le fila di un’orchestra mastodontica, governata dal maestro russo con apparente leggerezza di cuore e corpo (ma l’abito nero alla fine della prima parte luccicava tanto era madido di sudore nel caldo boccheggiante della grande sala priva di aria condizionata).
E dopo Maisky, Schiff, Kissin, Bell, Sokolov in arrivo Repin, Kavakos, Matsuev, Il flauto magico di Mozat e la Seconda sinfonia di Mahler, sconfinando fino alla MPB di Gilberto Gil: ancora une petite semaine di natura e musica per chi vuol correre a Verbier e godere di “bellezze diverse”. (Luigi Abbate)
In alto: Barati Gergiev © Lucien Grandjean