Certe stelle sono così: brillano talmente forte che, anche quando si spengono, lasciano una scia di luce che non fa che aumentare lo sgomento, l’incredulità. I social media, in questo caso poi, hanno giocato la loro parte: quando sulla pubblica platea si lancia un messaggio c’è chi risponde con incredulità, e chi invece non vuole crederci.
Perché semplicemente David Bowie, scomparso dopo 18 mesi di lotta contro il cancro, era parte di noi. La star di Lets Dance, il trasformista, il camaleontico, colui che aveva inciso tre anni fa – uscita il giorno del suo compleanno, l’8 gennaio – la profetica Where are we now, con video di Tony Oursler (qui sopra uno still), semplicemente aveva già raggiunto l’immortalità. E tutti, per questo, sono rimasti shoccati dall’annuncio della sua morte.
David Bowie è «morto oggi pacificamente sostenuto dalla sua famiglia dopo 18 mesi di battaglia contro il cancro», hanno scritto i famigliari della grande rockstar britannica sull’account Twitter ufficiale dell’artista, chiedendo di «rispettare la sua privacy».
69 anni, e cinque decenni di musica attraversati, la passione per il Buddhismo, la sua Space Oddity che nel 1969 venne usata dalla BBC nei servizi dedicati al lancio dell’Apollo 11, la collaborazione con Andy Warhol, e poi le sperimentazioni, l’elettronica, le dichiarazioni controverse sul Nazismo, la bisessualità vera o presunta ma che negli anni ’70 lo fece anche diventare icona gay: tutto quello che era stato avanguardia, trasgressione, e stile, era stato David Bowie.
Figura elegante, di Duca Bianco. Che ci mancherà tantissimo.
In home page: David Bowie a Chiagaco, 8 agosto 2002. Foto Adam Bielawski (dettaglio)