La Biennale di Istanbul ha appena aperto le porte, eppure, raccogliendo impressioni e commenti, sembra esserci una grande assente, la politica. Niente episodi clamorosi, nessuna voce troppo alta e, in effetti, c’era da aspettarselo, lo scrivemmo già
qui, visto che
Elmgreen & Dragset, i curatori di questa quindicesima edizione, hanno scelto di affrontare la questione giocando di fino, rimanendo nella metafora, con quel pizzico di ironia dissacrante che caratterizza le loro operazioni. Il good neighbour, il buon vicino, tema scelto dal duo, è un sottile gioco di allusioni e sono i curatori a fornirne la chiave di lettura: «Una reazione troppo diretta dell’arte, spesso non ottiene grandi risultati in campo politico. Può anche trattarsi di buona arte ma spesso è pessima politica. L’arte deve comportarsi in modo diverso, rispetto ai media, non può usare lo stesso linguaggio semplificato e populista». L’invito è rivolto a immaginare nuovi approcci, evitando prese di posizione magniloquenti, facilmente etichettabili. La Biennale è quasi interamente finanziata dall’omonima fondazione privata e solo il 6% dei fondi provengono dal Ministero del Turismo e della Cultura ma in Turchia, oggi, la censura è forte e ha ampi margini d’azione. Eppure la cura Elmgreen & Dragset ha dato i suoi frutti, perché non si è verificata alcuna ingerenza, hanno rivelato i curatori. Opere evidentemente politiche sono state presentate, come il grande murale di
Latifa Echakhch, che ricorda le proteste di Gezi Park del 2013, oppure il video del curdo
Erkan Ozgen, che racconta la storia di un ragazzo siriano. E l’argomento della diversità di genere, nervo scoperto della società turca, è apertamente celebrato nello statement della Biennale e nel programma pubblico. E se siamo qui a raccontarlo, dovrà significare qualcosa.