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Ma parliamoci chiaro: vivere a Milano, Parigi o Londra o Pechino, dove si superano costantemente i livelli di pm10 nell’aria, sarà più o meno dannoso che stare accanto dieci minuti ad un’opera di Damien Hirst?
Non vogliamo fare i facili, ma la notizia che sta facendo il giro del mondo in queste ore, che imputa a opere come Black Sheep o lo squalo The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living, Mother and Child, la mucca e il vitellino fatti a pezzi e conservati sotto formaldeide, realizzati dall’artista nei primi anni ’90 e rimasti suoi cavalli di battaglia, di essere tossici per la salute ha qualcosa di comico.
Ci spiace per gli studi italiani, condotti dal team del professore Pier Giorgio Righetti al Politecnico di Milano, che hanno rivelato che i livelli della sostanza chimica cancerogena intorno alle opere, durante la mostra alla Tate del 2012, erano a 5 ppm (parti per milione), ovvero dieci volte superiore alla raccomandato limite di sicurezza di 0.5ppm, ma davvero – senza nulla togliere all’efficacia dello studio – pare una questione irrisoria.
“La Tate mette sempre la sicurezza del suo personale e dei visitatori prima di tutto, e prendiamo tutte le precauzioni necessarie durante l’installazione e la messa in scena delle nostre mostre”, ha nuovamente riportato il museo inglese, forte di un altro studio che invece avrebbe scongiurato il pericolo.
Hirst, nei primi anni ’90, scelse volontariamente il materiale per le sue proprietà pericolose: “se si respira la formaldeide si soffoca come durante un annegamento”, aveva scritto nel testo che accompagnava la mostra. Stando ai fatti, insomma, dopo le spiagge invase dai kamikaze che si sono prospettate per l’estate 2016, ora dovremmo preoccuparci anche di cosa respiriamo al museo. Non sarà un po’ troppo?
Damien Hirst di fronte a The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living alla Tate Modern, 2012, Photo: Oli Scarff/Getty Images.