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Il cambio di passo del moderno. Giacometti, Picasso e i primitivi, alle Terme di Diocleziano

di - 4 Ottobre 2018
La mostra “Je suis l’autre. Giacometti, Picasso e gli altri”, da poco inaugurata alle Terme di Diocleziano, pur accostando le opere di scultori e artisti del ‘900 con i prodotti dell’arte primitiva, non va necessariamente pensata nell’ordine dell’assimilazione e del gioco di influenze. È la curatrice Maria Grazia Messina a metterlo in chiaro perché idoli, maschere, feticci e oggetti antropomorfi non sono prodotti eccezionali ma si trovano in diversi contesti geografici e culturali. Nel 1907, lo stesso Pablo Picasso, che aveva utilizzato le maschere africane per le sue Demoiselles d’Avignon, aveva già sostenuto che non costituiscono dei modelli di cui per forza dover tenere conto, piuttosto, si tratta di testimoni oculari. Testimoni, per giunta, di una ricerca che trova sponda in culture molto lontane ma che diventano, anche grazie a questa esposizione, sempre meno distanti.
Il fascino senza tempo che emanano opere d’arte come quelle visibili in mostra – tronchi come la mangrovia rovesciata e scolpita dall’Oceania, il totem di Gaston Chaissac, sculture in ferro quali il Prometeo di Roberto Crippa, i bronzi di Brignoni o Richier, la pietra come Maternità di Isamu Noguchi, o in legno – ha attirato diversi artisti da più parti d’Europa. A partire da Paul Gauguin, fino a Jean Dubuffet, passando per Picasso ed Enrico Baj.
Di quest’arte primitiva non è rimasto quasi nulla nelle terre d’origine, come ha sostenuto l’altro curatore, l’antropologo Francesco Paolo Campione. Nulla c’è più nei luoghi che hanno partorita questa cultura visiva, eccetto alcune oasi remote con piccole collezioni, come quella che si trova in Angola. Il portato dell’imperialismo coloniale che in queste parti del mondo ha avuto un ruolo determinante, reca con sé, come conseguenza, almeno la possibilità di uno scambio culturale tra musei europei ed extraeuropei, a scapito però di questi ultimi, che vedono la maggior parte delle collezioni africane impoverite se non addirittura del tutto annullate.
La mostra suddivisa in sette sezioni, indaga come la grammatica degli artisti europei, sollecitata dall’arrivo di questi prodotti esotici, fosse ribaltata e il canone della fedeltà all’apparenza, da quel momento in poi, non fosse più ritenuto per forza la vera misura dell’arte.  Da allora, cioè suppergiù dal 1860, non solo idoli e feticci soppiantarono la produzione di statue ma è anche da notare come la dimensione spirituale abbia preso effettivamente il sopravvento. Di questo changement de pas, anche le pratiche performative ne avrebbero risentito e anche Yves Klein, Jackson Pollock e Joseph Beuys non sarebbero rimasti immuni dall’introdurre, come propria modalità creativa, una certa ritualità dell’arte e, soprattutto, dal considerare l’artista come uno sciamano. (Anna de Fazio Siciliano)

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