19 marzo 2015

Il Dio Matisse, tra miracoli e ribellioni. Ecco il primo incontro dedicato all’artista al Palaexpo

 

di

«Lei crede in dio?»
«Si, quando lavoro. Perché quando lavoro io sono dio».
Si parla della spiritualità nell’arte di Matisse durante il primo incontro organizzato dal PalaExpo di ieri sera. Relatore che “apre le danze” di Matisse, Erich de Chassey (Direttore dell’ Accademia di Francia).
Nel 1951 il pittore francese rilasciava un’intervista dove spiegava che per tutto l’arco della sua esistenza e pittura ha trattato con naturalezza sia il sacro che il profano  dicendo: «Sono partito dal profano e concludo col divino». Infatti l’ultimo progetto unitario e decorativo “bagnato di colore” che aveva sempre sognato  di fare si realizza alla fine della sua vita e si svolge a Vence, nella celebre Chapelle du Rosaire. 
E Picasso insolente gli chiede: «Ma perché una cappella?»
«A me interessava un luogo comune, se fosse stata una sala da ballo, sarebbe stato uguale!”» 
Perché l’importante è che conoscesse il pubblico a cui rivolgersi, almeno un po’. Era dichiaratamente ateo  Henry, fin da ragazzo e mai si sarebbe convertito alla fede cattolica. La sua unica religione era quella di un’opera da creare. Tutto qua.
Ma nel realizzare la decorazione della cappella, pittorica, delle vetrate, degli oggetti liturgici mai si sarebbe pensato che è grazie a lui, un agnostico convinto, che si sarebbe anche rivoluzionato il ruolo e il posto dell’officiante. Il prete si rivolge alla comunità da pari a pari e non volge più le spalle.
Altre ribellioni. Stavolta nella composizione.
«Il  mio atteggiamento non è cambiato. Io sono lo stesso davanti a un volto umano, o a una sedia».
Quel che conta, per Matisse, è l’armonia che si stabilisce con lo sguardo dell’osservatore o meglio con la sua anima. Il rapporto deve essere tra interiorità e interiorità.  E perciò l’importante non è il soggetto da ritrarre, ma conta entrare in contatto con il soggetto profondo che non è solo l’iconografia, la scelta del colore o della posizione delle figure nel quadro. Tanto più che lo spazio è appiattito, unificato, è lo spettatore a completare la tela. Tutto ciò è più che evidente in tutta la sua carriera e in particolare nell’opera Calle, iris e mimosa (1913) e ancora nella celebre Fenetre ouverte oppure in Lierre en fleurs (in mostra) e soprattutto in Harmonie rouge (non presente in mostra, in home page) dove torna ancora la sua nostalgia del sacro con una maternità clandestina! Dove una vergine pregna si confonde con colori e arabeschi.
Resta a questo punto da chiedersi come mai il Vaticano abbia aperto una nuova sala dedicata all’ateo più accanito che ci fosse. Sempre per la stessa ragione: voler abbracciare tutti? Credenti e non? (Anna de Fazio Siciliano)

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