La sfida del presente si gioca nelle città. Agglomerati dai confini decisamente sfumati, tra geografia e architettura, paesaggio e urbanizzazione, centro e periferia, flussi e individui. Tutte queste sfumature e altre ancora, saranno affrontate in occasione di Bi-City Biennale di Urbanistica/Architettura di Shenzhen e Hong Kong, manifestazione istituita nel 2005 e focalizzata sull’urbanistica che, per questa edizione, in apertura a dicembre 2019 e fino a marzo 2020, si concentrerà sul dialogo tra Intelligenza Artificiale, spazi urbani e comunità. Tre i gruppi curatoriali che presenteranno i loro progetti, diretti rispettivamente dai chief curator Carlo Ratti, Meng Jianmin e Fabio Cavallucci, al quale abbiamo rivolto alcune domande.
Shenzhen e Hong Kong. Città, verrebbe da dire, separate da un fiume e da due manifestazioni: Bi-City nella metropoli nuova e le Business Design Week nella vecchia colonia britannica. Come ti trovi a lavorare su questo limite, visto che la Biennale, quest’anno, sarà dedicata alla città e alle nuove tecnologie, argomento che supera i confini tra geografia, human, servizi e possibilità offerte all’individuo?
«La Biennale intende sottolineare proprio questo rapporto, collocando simbolicamente la main venue di Shenzhen nella stazione di Futian, da cui parte il treno veloce che da settembre scorso collega le due città in 15 minuti. Finora, contrariamente alla collocazione geografica, tra le due aree urbane è rimasta una certa separazione. Diversa la loro storia: Hong Kong è stata un avamposto britannico, sede di imprese e fondi internazionali. Shenzhen è una città sorta negli ultimi quarant’anni, esempio tra i più impressionanti del rapido progresso cinese, da villaggio di pescatori divenuta una metropoli di più di 13 milioni di abitanti, con grattacieli tra i più alti del mondo e con le società informatiche più avanzate del globo, da Huawei a Tencent. Certo, c’è qui molto da investigare sul rapporto tra città e nuove tecnologie, e anche sulle connessioni tra città. Infatti il tema è “Iterazioni urbane”, a intendere l’incontro tra tecnologie di varia natura, ma anche tra varie aree geografiche, di cui il Pearl River Delta è quella designata a compiere il maggiore progresso nei prossimi decenni».
Da che parterre sarà composta la tua sezione di Bi-City? Quali artisti state coinvolgendo, dove e come si presenterà la mostra?
«La nostra sezione vede l’architetto Meng Jianmin e me come chief curator, ma è composta da molte personalità, di cui vorrei almeno citare la curatrice Manuela Lietti, che vive a Pechino e a cui si deve l’aver raccolto questo team. Poi c’è l’altro team, guidato da Carlo Ratti, casualmente anch’esso in gran parte italiano. I due progetti toccano ambiti molto vari; il nostro addirittura la fantascienza, usata come strumento speciale per investigare il futuro. Ovviamente anche l’arte sarà coinvolta ma è ancora un po’ presto per rivelare nomi e progetti. Vorrei solo dire che la nostra mostra, intitolata “Ascending City”, sarà suddivisa in tre sezioni: la prima guarda allo sviluppo della città smart attraverso gli occhi del cittadino, il loro primo utilizzatore; la seconda attraverso il punto di vista degli architetti e degli urbanisti, coloro che hanno il compito di sviluppare i piani per il futuro; la terza infine, attraverso i ricercatori più visionari coinvolge l’idea di città ideale, di utopia, ma anche il suo opposto, la distopia, il possibile fallimento. Un’ascesa verso il futuro, dunque, non passiva e acritica, che si svilupperà come un percorso attraverso spazi coinvolgenti e stimolanti».
Un tuo saggio appare anche nell’ultimo libro edito da Postmedia Books, curato da Gianni Romano, che si intitola “Become a curator”. Che cosa significa, per te, curare una mostra, oggi, in un luogo come Shenzhen? Vero che ogni mostra è un caso a sé ma ci sono, invece, dei punti comuni che si affrontano ogni qualvolta si viene coinvolti in un progetto di curatela? E come vengono gestiti?
«Il libro di Giani Romano, che raccoglie molti saggi di curatori, molti dei quali di grande esperienza internazionale, è un ottimo modo per rendersi conto di quanto sia vario il modo di affrontare la curatela di una mostra oggi, ma allo stesso tempo sottolinea quanto sia importante sviluppare un pensiero critico su questo, in un momento di grandi trasformazioni. Nel mio saggio affronto il problema di mostre di ricerca ma allo stesso tempo popolari. E qui viene il discorso sulle biennali, di cui quella di Shenzhen rappresenta per me una sfida e un’opportunità: le biennali sono il format in cui si può sperimentare meglio questo ossimoro, la coesistenza tra il rigore scientifico e artistico e la possibilità – direi quasi la necessità – di essere anche apprezzate da un vasto pubblico».