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Incontri sensibili. Paolo La Motta in dialogo con i Maestri del Museo di Capodimonte

di - 3 Luglio 2018
In questi giorni, a Napoli, l’arte contemporanea ha, in tre mostre, tre volti diversi. C’è l’arte colori-gioco-festa-fantasia del grande benefattore della nostre anime depresse, John Armleder, che con la sua personale al Madre fa convertire al contemporaneo anche gli scettici tradizionalisti. C’è Thomas De Falco che, a Casa Morra, rimane impigliato in una visione politicamente corretta del mondo d’oggi. E poi c’è Paolo La Motta, che insegna che cos’è l’arte bella e umana, quella che emoziona, si fa ammirare e fa pensare. Eccolo, nella Reggia-Museo di Capodimonte, con “Paolo La Motta incontra Capodimonte”, una mostra che si inserisce in quel ciclo, “Incontri sensibili”, che accosta opere contemporanee ad altre conservate nel museo.
Si racconta che La Motta, da ragazzino, si sia attardato nel bosco di Capodimonte oltre l’orario di chiusura e abbia avuto paura di scavalcare il muro di cinta. Si immagina che sia rimasto nel museo a guardare le opere dei grandi maestri e non ne sia più uscito. E da qui sia nata la sua conoscenza appassionata dell’arte. Certo l’artista ha frequentato a lungo Capodimonte e c’è un consiglio da dare a tutti, artisti e non: venite in questo splendido museo per imparare che cos’è l’arte. Ma, forse, Paolo La Motta, anche senza questa frequentazione e il suo diploma di scultura all’Accademia, sarebbe stato vero artista lo stesso.
Lui è nato a Napoli, nel popolarissimo rione Sanità e qui vive e lavora. Un rione che tenta di riprendersi con difficoltà dal degrado ma ricco di storia. Qui ci sono le tracce degli antichi greci e dei cristiani delle catacombe, ci sono i magnifici palazzi nobiliari e le chiese barocche. E qui Paolo La Motta ha respirato l’antica sapienza delle pietre, si è nutrito di Napoli, del suo linguaggio, dei suoi pensieri, delle vecchie case, vissute nei secoli da tante, tantissime vite. Ed è significativo che abbia voluto mettere a confronto le sue opere con artisti che, della napoletanità, si sono nutriti, come il grandissimo Vincenzo Gemito, il famoso fotografo Mimmo Iodice, entrambi nati e vissuti nel rione Sanità, e il pittore Giovanni Lanfranco (1582/1647), un parmense che a Napoli ha soggiornato a lungo, tanto da assorbire ed esprimere l’anima del suo spazio barocco. Da qui la omogeneità delle opere in mostra.
Ecco quindi il mare, una spiaggia, in grigio il barocco palazzo Sanfelice, con la luce accecante di un portone aperto, una prostituta, la Maddalena, che ascende al cielo, il viso, bellissimo, tagliato a metà, di Anna dai grandi occhi (a Capodimonte c’è anche la sua testa scolpita e il ritratto di lei pazza e quello di lei, poi, stranita, sul letto di morte). E c’è anche un ragazzino, anche lui con il viso coperto a metà, con grandi occhi espressivi, forse intuiscono il terribile futuro, e un polittico con tre ritratti del suo viso, di faccia e poi da un lato e poi dall’altro, cosicché quei ritratti bidimensionali possiamo ricomporli nella loro materiale tridimensionalità, servendoci del tempo, portando il nostro sguardo da un ritratto all’altro. Quel ragazzino è Genny. Cioè Gennaro ma lo chiamavano così fin da bambino, quel ragazzino che di La Motta è stato allievo ma che ora non c’è più. C’è anche una sua scultura, alla Sanità, davanti alla Chiesa di San Vincenzo. Proprio nel posto dove poi, a diciassette anni, è stato ucciso da una stesa, la sparatoria insensata di altri ragazzi della Sanità che, sbandati, senza guida, né un principio, né un futuro sereno in cui credere, si divertono a spararsi tra loro.
Paolo la Motta è un vero artista e una persona onesta e sensibile. La sua meritatissima entrata nella Reggia-Museo di Capodimonte, dove una sua opera rimarrà per sempre, è stata voluta dal direttore Sylvain Bellenger, un francese-normanno sempre più napoletano che comprende l’anima di Napoli, l’universalità della sua arte. E se ne prende cura. (Adriana Dragoni)

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