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Per descrivere l’Ile De la Biche, un isolotto poco al largo della costa nord di Guadalupe, non si può fare a meno di ricorrere al campionario lessicale dei tour operator. Osservando su Google Earth questo lembo di terra emersa, è difficile immaginare qualcosa di diverso da un piccolo paradiso perduto. Soprattutto se, dall’altra parte del mondo, si è alle prese con un assortimento completo di cappotti, guanti, cappelli. D’altro canto sarebbe sbagliato credere che la Biche sia solo una meta di svago per occidentali in fuga perché, dal 6 gennaio, sarà sede della «Biennale più piccola al mondo», dicono Alex Urso e Maess Anand, fondatori e curatori. “Una terra di” è il titolo di questa prima edizione, una frase sospesa, senza verbo o specificazioni, più suggestione che tema, per lasciare quanto più possibile intatto il fascino «di un luogo geograficamente isolato ma, soprattutto, un punto distante da tutti i limiti e le convenzioni del sistema dell’arte contemporanea», continuano i curatori, che parteciperanno all’esposizione insieme agli artisti invitati: Karolina Bielawska, Norbert Delman, Michal Frydrych, Styrmir Örn Guðmundsson, Ryts Monet, Jeremie Paul, Lukasz Ratz, Lapo Simeoni, Saku Soukka, Aleksandra Urban, Yaelle Wisznicki Levi e Zuza Ziołkowska-Hercberg. Non è il primo posto che potrebbe venire in mente per una mostra e la scelta ha le sfumature di quella ineluttabile casualità che, spesso, fa intraprendere questo genere di progetti, «tutto è nato da una proposta di Maess Anand che si stava preparando per un viaggio a Guadalupe e, conoscendo la mia attività di curatore, mi ha chiesto di pensare a un evento da realizzare insieme, a La Biche. Da entrambe le parti è stata una decisione presa a occhi chiusi, ci siamo detti di provare, nonostante le evidenti difficoltà. Eppure tutto ha preso forma e i lavori stanno viaggiando proprio in queste ore verso l’isola», ci ha spiegato Urso.
Una Biennale che suona più simile a un augurio che a un aggettivo, perché la sospensione non è solo geografica ma anche cronologica. Infatti, questo angolo di spazio delineato dai flussi, luogo senza luogo e pura eterotopia, è destinato a scomparire nel giro di alcuni anni, in modo inesorabile, a causa dell’innalzamento del livello del mare, portando con sé anche le opere, tutte realizzate con materiali degradabili. Disegni, fotografie, sculture, non sono più «frammenti monumentali e durevoli nella linea del tempo della storia dell’arte, ma fragili elementi che decadono, seguendo i limiti del mondo cui appartengono». (Mario Francesco Simeone)