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La mostra di Olafur Eliasson alla Tate Modern è una spettacolare avventura nel nostro tempo

di - 10 Luglio 2019
Siete pronti a tuffarvi da una cascata di 11 metri? Oppure preferite attraversare un tunnel di 45 metri, immersi in una fittissima nebbia? Chi crede che arte contemporanea non sia proprio sinonimo di avventura, dovrebbe fare un giro alla prossima, grande mostra di Olafur Eliasson alla Tate Modern. Oppure, se proprio si preferisce una fruizione comoda, sedersi davanti a un bel tavolo e cimentarsi nella costruzione di una futuristica città Lego, perché l’artista danese ha pensato ai gusti – e alla condizione atletica – di tutti.
“In real time” aprirà l’11 luglio e presenterà una nutrita serie di installazioni immersive, alle quali Eliasson ci ha ben abituato nel corso di questi anni, a partire proprio dal suo precedente progetto nella Turbine Hall del museo londinese, nel 2003, quando con The weather project illuminò di una luca post apocalittica i sogni e le visioni di più di due milioni di persone. Da lì a prendere due iceberg dalla Groenlandia e farli sciogliere sul Tamigi, per Ice Watch London del 2018, il passo può sembrare breve ma, sicuramente, è impegnativo e bisogna dire che pochi artisti sono riusciti ad affrontare il tema ambientalista in maniera trasversale come ha fatto Eliasson, dal design quotidiano dell’Ikea ai lavori su scala monumentale, coinvolgendo contesti diversi e collaborando con aziende dall’enorme impatto sociale, economico e anche politico, visto che questa è l’epoca delle multinazionali.
In esposizione per questa retrospettiva, a cura di Mark Godfrey ed Emma Lewis e visitabile fino al 5 gennaio 2020, circa 40 opere tra le più iconiche e cinque nuovi lavori, appositamente realizzati per questa occasione. Il climate change, inteso come un fenomeno che circonda e condiziona le nostre esistenze, sarà al centro della mostra, anche in senso letterale, visto che molte opere saranno attraversabili, percorribili, ascoltabili, annusabili o, comunque, fruibili in qualche modo partecipato e relazionale. Come nel caso di Cubic Structural Evolution, un’ampia tavolata sommersa di mattoncini bianchi Lego, che i visitatori potranno usare per costruire il loro modello ideale di abitazione.
La mostra coinvolgerà tutta la Tate Modern, anche il bar panoramico sulla terrazza, che presenterà uno speciale menù vegetariano, biologico e a chilometro zero. Pare che sul menù sarà anche specificato l’impatto ambientale: questa insalata di zucchine ha prodotto 38 grammi di emissioni di C02. Godfrey ha spiegato che la Tate ha scelto consapevolmente pezzi che erano in Europa: «Per le spedizioni, abbiamo preferito camion e traghetti, invece del trasporto aereo». Sempre sulla terrazza, Eliasson ha installato una grande scultura a cascata, con vera acqua corrente, per farci riflettere sui gradi di artificialità della nozione antropica di natura.
La crisi ambientale è un argomento spinoso, in particolare per certe istituzioni museali, che ricevono regolarmente donazioni ingenti anche da gruppi petroliferi. La Tate ha concluso nel 2017 la sua partnership con la BP, società del Regno Unito operante nel settore del petrolio e del gas naturale, e proprio in questi giorni, 78 artisti, tra i quali Antony Gormley, Anish Kapoor e Rachel Whiteread, hanno chiesto ufficialmente alla National Portrait Gallery di fare altrettanto.
Cosa avrebbe fatto Eliasson se la Tate avesse ancora rapporti con BP? «In realtà non lo so. È chiaro che le compagnie di combustibili fossili dovrebbero compiere scelte più radicali, in merito alla questione. Ma è anche chiaro che molte tra loro ne sono consapevoli e, anche se non abbastanza velocemente, si stanno interessando anche alle energie rinnovabili».

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