Come un poligono convesso i cui lati opposti, paralleli e congruenti, tracciano un discorso generazionale che vuole mostrare, sul ring dell’arte, se non una continuità quantomeno una contiguità tra due maestri e due artisti di più recente generazione (anche loro ormai maestri affermati), l’esposizione organizzata a Urbino nelle Soprallogge del Palazzo Ducale – sede della Galleria Nazionale delle Marche dove non possiamo non fermarci a guardare la Madonna di Senigallia e la Flagellazione di Piero della Francesca – pone al centro dell’attenzione un piccolo ma felice percorso, un dialogo, un colloquio che nasce sotto la stella del lavoro intellettuale e che dimostra l’interesse di aprire nuove brecce nel mondo della cultura, di disegnare nuove attenzioni sul presente.
Curata da Adele Cappelli, che ha pensato bene di chiamarla “Incontro a palazzo”, questa mostra urbinate (città che vanta non solo d’essere stata tra le luci del Rinascimento ma anche d’essere, oggi, un centro brillante per i giovani cervelli, grazie alla sua Accademia di Belle Arti) ha tutte le carte in regola per parlare, ancora una volta, di contaminazione tra l’arcaico e l’attuale, di complicità tra l’Innen e l’Aussen, di partecipazione tra l’arte e l’abitare. Luigi Carboni, Paolo Icaro, Eliseo Mattiacci e Giovanni Termini, i quattro artisti invitati a generare una polifonia che, a detta di Peter Aufreiter, direttore della Galleria Nazionale delle Marche, accompagna «i visitatori in un viaggio nel quale le coordinate spazio-temporali dell’architettura si intrecciano con quelle della storia dell’arte». Ma di una storia dell’arte contemporanea, in questo caso, che crea piccoli e piacevoli terremoti estetici, potenti ponti di congiunzione tra l’imponente architettura delle soprallogge e le opere dei quattro artisti.
Stupisce, qui, la bravura degli artisti e della curatrice che si è messa all’ascolto, l’apprendere che tre interventi su quattro non nascono come site specific eppure sembrano nati lì e risiedere in quel luogo da sempre, viverlo con la loro potenza magnetica, stuzzicarlo con un buon grado di eleganza che sembra provenire dall’aria che li separa e che inevitabilmente, heideggerianamente – «fare spazio è libera donazione di luoghi. Nel fare spazio parla e si cela al tempo stesso un accadere» – li accomuna sotto il segno di un Raum.
Guardare correre sul pavimento la Linea di equilibrio (2011) di Paolo Icaro, è un po’ come sentire una sorta di brivido sulla schiena che lascia poi la freschezza di una plastica elegia, di un canto flessuoso che rompe la monotonia del pavimento cinquecentesco e lo fa diventare pagina di un nuovo racconto. E le dieci Tavole degli alfabeti primari (caspita, sono del 1972) che Eliseo Mattiacci aveva esposto alla XXXVI Biennale d’arte di Venezia, Opera e comportamento, sembrano non solo mostrare la stessa puntualità e la stessa svolta decisiva (è stato Filiberto Menna a suggerirlo) «rispetto alla sequenza Colla, Consagra, Franchina, Leoncillo, Mannucci, Mastroianni, Milani, Pierluca, Pomodoro, Ramous, Spagnuolo, Trubiani, Viani, Lorenzetti» di allora, ma anche una impareggiabile evoluzione linguistica che è in grado di trasformare lo spazio in Gesamtkunstwerk.
Anche le cinque tele proposte da Luigi Carboni – Dormiente (2012-2013), Senza varianti (2013-2018), Cosa ben fatta (2014-2016), Sex (2013-2016), Luoghi Comuni (2017) – sono, in questo itinerario, non solo superlativi punti di pittura ma anche e soprattutto intervalli, diastemi cromatici, interpunzioni che dialogano strettamente con i vuoti e i pieni della massa architettonica, quasi a risegnarla, a ripensarla.
Con il suo azzurro carta da zucchero, e che sciccheria!, Ostacoli (2019) di Giovanni Termini, unica opera realizzata dopo un sopralluogo dell’artista (chi conosce Termini sa benissimo che il suo modus operandi è quello di fare spazio), sembra fatta di materia diafana e ghiacciata, sembra realizzata con segni di cielo, sembra quasi la materializzazione della invisibile armonia teorizzata da Giordano Bruno: è a tutti gli effetti una leggerissima barriera (sette elementi) che “impedisce” allo spettatore il passaggio per trasformare l’aria che respira in scultura, in parte di un tutto.
«Come ospiti invitati a corte, ai quali è stata data la possibilità di sostare, le opere esposte hanno scelto» dunque «di richiamare l’attenzione su questo particolare spazio, rendendolo percettibile», suggerisce la curatrice (e vale la pena recuperare un catalogo, Edizioni Arti grafiche della Torre, pag. 160, euro 15). «Nel ridisegnarlo, con la loro presenza, hanno posto l’accento sulla capacità del luogo e dell’arte di accogliere, fisicamente e metaforicamente, la possibilità di mostrare e disporre di uno spazio-tempo rinominato da intervalli e soste, per lasciarsi guidare tra le narrazioni dell’arte, attraversando i secoli, fino all’oggi». (Antonello Tolve)