30 dicembre 2015

L’opera d’arte più antica del mondo, che non conosceremo mai. Ventun anni fa, il ritrovamento delle pitture rupestri della grotta di Chauvet

 

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Sulle pareti della grotta di Chauvet, scoperta nel dicembre del 1994 dallo speleologo Jean-Marie Chauvet, c’è una storia che non potremo mai comprendere. Tra formazioni iridescenti edificate dalle ere geologiche e dalle acque del fiume Ardèche, oltre i conglomerati di travertino e le intricate foreste di stalattiti e stalagmiti, compaiono bisonti, mammut, rinoceronti, leoni, orsi, cervi, cavalli, iene. La più antica sequenza di immagini è una pittura rupestre vivida e dinamica, tracciata dalle mani degli uomini di Cro-Magnon 32mila anni fa. 
Varie stratificazioni di pitture e segni si sovrappongono a unghiate di orsi, coprendo un arco cronologico di circa 5mila anni in cui non si notano sostanziali differenze stilistiche o di tecnica. In quei millenni, la grotta deve essere stata un luogo di ritrovo se non di culto, come fanno intendere sia la disposizione di molte ossa di animali rinvenute sul sito, tra cui il teschio di un orso accuratamente sistemato al centro di una grande pietra squadrata, che l’andamento delle pitture, ripartite su un’estensione di 500 metri, quasi a scandire le tappe di un rito di iniziazione. Poi, circa 20mila anni fa, una frana chiuse ogni accesso a questa sorta di cattedrale preistorica. 
In questo spazio isolato al di fuori del tempo, nella regione francese del Rhône-Alpes, sono stati individuati i ritratti di oltre 500 animali, alcuni in movimento – le otto zampe di un bisonte sembrano un’anticipazione sconvolgente del cinematismo delle Avanguardie – altri in combattimento, con i rinoceronti che incrociano i corni. L’unica figura umana è dipinta su una sporgenza nella parte più remota della caverna, presenta caratteri femminili ed è congiunta a un leone o a un bisonte. L’intensità ipnotica nell’adattare le linee alla superficie, i giochi di pieni e vuoti, l’insieme ritmico creato dalla successione delle forme, lasciano supporre non solo una padronanza strumentale ma anche una complessa coerenza concettuale. 
Oggetti ornamentali, riti funerari, oggetti decorati e attività non strettamente utilitarie, caratterizzavano la cultura paleolitica dell’Aurignaziano, compresa 47 e 35mila anni fa. Si iniziarono a usare manufatti articolati e di forma definita, ricavati da materiali di origine animale. Gran parte dell’Europa settentrionale e centrale era coperta da una coltre di neve e, in seguito all’accumulo dei ghiacci continentali, il livello del mare si abbassò fino a un centinaio di metri sotto quello attuale. Emersero ampi territori, come quello del canale della Manica, permettendo la comunicazione via terra anche tra le penisole iberica e italica. Branchi di grandi mammiferi percorrevano vaste lande di tundra, seguiti da gruppi umani organizzati intorno a strutture nomadi e a ritmi stagionali di occupazione e sfruttamento del territorio. Tutto lo spazio tendeva a un continuo infinito e tra le cose inanimate, gli uomini e gli animali si distendeva una sottile prossimità che rendeva fluidi gli ambiti e i domini. 
Nella grotta di Chauvet, si sono avvicendati vari artefici e un autore è stato anche identificato: si trattava di un uomo con il mignolo incurvato, alto circa 1,80 centimetri, l’altezza media dell’esemplare di Cro-Magnon. Emarginato, sacerdote o cacciatore, possiamo solo indovinare con quale ruolo si inserisse nella sua società. Possiamo immaginare processioni silenziose o riti festanti in cui esseri umani e animali procedevano di pari passo, svolgendo la stessa funzione e adoranti una divinità ibrida, oppure generazioni di folli che, isolati dal gruppo, manifestavano i propri sogni, intuendo una continuità comunicativa con il futuro. Cosa volessero esprimere, quale esatta percezione del mondo e di se stessi riflettevano, è un interrogativo al quale non si può dare una risposta sicura. L’enigma della rappresentazione è tutto racchiuso in quei segni. (Mario Francesco Simeone)

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