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Milano Art Week/8. Palazzo Citterio apre al contemporaneo. Ne parliamo con Mimmo Paladino

di - 11 Aprile 2018
Sono durati poco meno di tre anni i restauri di Palazzo Citterio, che oggi ha aperto le porte, mostrando tutti i suoi nuovi, ampi e luminosi 6500 metri quadrati dedicati all’arte contemporanea. Ma la storia inizia diverso tempo fa, quando, nel 1972, il Palazzo storico fu acquistato dallo Stato nell’ambito del progetto di ampliamento dell’Accademia di Brera. Il primo piano di ristrutturazione risale al 1975 ma il lavori si interruppero, riprendendo nel 1989 e proseguendo fino al 2005. Nel 2013 una nuova gara e la conferma della destinazione museale, con sale conferenze, bookshop, caffetteria e un giardino con sculture da congiungere all’Orto botanico di Brera. La palla, adesso, passa al direttore James Bradburne, che avrà il compito di valorizzare la struttura. Al restauro ha partecipato, con la sua presenza carica di significato artistico e con una sua opera, Mimmo Paladino, che abbiamo raggiunto per una intervista, tra lezioni di storia e rimandi ad Alberto Burri.
Maestro, il motivo per cui ho deciso di intervistarla sull’opera “Muro Longobardo” è legato ai ricordi di una storia di famiglia. Il restauro di questo luogo è per me un’opera di profondo significato. Al contempo anzitutto mi sorge spontaneo chiederle: per quale motivo la sua presenza a Palazzo Citterio?
«Anzitutto devo dirle che il mio incontro con Palazzo Citterio avviene grazie ad Alberto Burri. Entrai per la prima volta in vita mia in questo luogo nel mese di Maggio del 1984. La ristrutturazione non era ancora finita, e l’occasione per una riapertura fu data dalla mostra di Burri – si trattò di un evento di portata internazionale. Fu lì che conobbi il luogo. Pensai subito che quegli spazi si adattavano perfettamente alla produzione artistica di Burri».
Oggi, 34 anni dopo, lei è a Palazzo Citterio con la sua opera. Quale idea è all’origine del suo lavoro per questo importante restauro?
«Quando venni chiamato dalla soprintendenza per la presenza di un mio intervento artistico non pensai ad una opera di carattere monumentale, e nemmeno ad un imponente creazione scultorea. Ciò a cui pensai fu un simbolo longobardo, un elemento longobardo in grado di richiamare il senso della storia di Milano come città longobarda, e il mio legame con questa tradizione. Sono originario di Paduli, provengo da quell’area che è storicamente indicata come il ducato di Benevento, e quindi anche la mia storia affonda le sue radici in quella del popolo longobardo. Per me è stato naturale pensare a questa connessione antropologica».
Maestro, come ha voluto tradurre la sua idea di sviluppare un’opera attorno all’idea dell’elemento longobardo?
«Un muro. Il “Muro longobardo” nasce da questa mia riflessione. Ho rinunciato alla monumentalità di un’opera e ho agito così come agirono i Longobardi: unire assieme, ricomporre i residui, i resti, le macerie architettoniche lasciate nello spazio del giardino di Palazzo Citterio. Ricomporre i frammenti di una storia precedente a quella del muro che vediamo. Utilizzare i residui di una civiltà precedente per ricostruire, per ricomporre. E’ così che i Longobardi hanno costruito i loro muri : mettendo assieme i resti che la penisola italica presentava al loro arrivo qui in quell’anno 568. Una penisola italica fatta di rovine dello splendore dell’Impero Romano, già rovinata dal passaggio dei barbari, già regno degli Ostrogoti. I Longobardi ripresero e riutilizzarono, e i loro muri furono segno di questa azione di ripresa e di recupero».
In riferimento a questa sua opera, l’elemento longobardo è presente non solo nel senso storico, ma anche nella tecnica, e dal punto di vista prettamente estetico.
«Sì, sono tre gli elementi che si uniscono in questa mia ricerca. La storia longobarda, ma anche la tecnica utilizzata dai Longobardi per erigere i loro muri, e aggiungo anche il senso estetico. Il muro longobardo è un muro che richiama e che conserva. I Longobardi non erano mai entrati a contatto con i Romani, ma i loro muri costituiscono un richiamo della storia romana: un insieme di frammenti, al tempo stesso un’opera di conservazione. Qui mi riferisco fondamentalmente ad un’estetica della memoria. E così ho agito: conservare per ricordare, donare alla memoria il senso della bellezza. La mia opera trova completamento nel fatto che nelle fessure e negli spazi irregolari che si creano tra le pietre del Muro Longobardo verranno collocati frammenti: residui scultorei di capitelli, di teste, di cavalli. La scelta è quella di richiamare la tecnica longobarda e di richiamare un’estetica tardo-antica rinnovata in questo luogo che affronta, dopo il grande restauro, la contemporaneità».
Maestro, quale significato ha avuto per lei lavorare a questa opera?
«Anzitutto, un ricollegarmi alla poetica di Burri, e poi un ripensare alla nostra storia come a una storia di popoli che si avvicendano in un medesimo luogo e che lasciano tracce, resti della loro vita. L’arte deve fungere da strumento di trasmissione della memoria. Del resto lo stesso Palazzo Citterio è un luogo di memorie e lo è anche per me». (Michela Beatrice Ferri)

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