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Ora che forse se ne sono accorti anche negli Stati Uniti, potremmo guardare al progetto della metropolitana di Napoli con occhi “pacificati” rispetto alla sua grandiosità. E forse anche qualche napoletano, restio a scendere nel sottosuolo, si lascerà tentare dal lasciare parcheggiata l’auto per calarsi in quella nuova galleria d’Arte Pubblica che è la subway della città partenopea. Il Telegraph nei giorni scorsi ha pubblicato un’inchiesta sulle metropolitane più belle del mondo, collocando Napoli al primo posto. Un bel traguardo, celebrato anche con un lungo articolo sul New York Times dove compare anche una breve intervista ad Achille Bonito Oliva, coordinatore artistico del progetto che ha visto nascere, nell’ultimo decennio, le stazioni dell’arte, spazi che hanno come protagoniste opere site specific di Katharina Sieverding e Sol LeWitt, Giulio Paolini, Mario Merz, Ontani, Paladino e una novantina di altri artisti: «non decori per l’architettura, ma spazi mutati dall’arte e in dialogo con le opere, monumenti all’innovazione», ha dichiarato ABO.
E da New York non sfugge che un sistema talmente grandioso di commissioni e partecipazione arriva proprio da una città dove il trasporto pubblico di superficie è quotidianamente difficile e dove il mese scorso la metà degli autobus sono rimasti fermi a causa dei problemi economici della municipalizzata nel pagare i rifornimenti di carburante. Ridurre il traffico insomma è un modo per tentare di rigenerare la città, e la metropolitana fa parte di un più ampio processo di rigenerazione culturale. Che passa anche tramite l’apertura di nuove stazioni fuori dal centro cittadino, con la creazione di aree pedonali e introducendo le opere di artisti contemporanei a persone che normalmente non frequentano i luoghi dell’arte.
Tralasciando le difficoltà di avere un sistema sotterraneo di trasporti, anche per le condizioni morfologiche e gli innumerevoli reperti archeologici rinvenuti, Napoli ha visto le prime stazioni del metrò aprire solo nel 1993, anche se il progetto dell’arte-in-metro è stato promosso a partire dal 2003, finanziato in gran parte dall’Unione Europea, con Gae Aulenti e Atelier Mendini che hanno inaugurato il “format” con la fermata Salvator Rosa e continuando poi a Materdei.
Nella stessa stazione c’è anche Sol LeWitt, che ha voluto rendere omaggio a Napoli; la stazione Toledo, aperta a settembre, come vi avevamo riportato in una news, è stata progettata dall’architetto catalano Oscar Tusquets Blanca con Kentridge, Achille Cevoli e un paesaggio marino di Robert Wilson. E c’è inoltre da specificare che tanti degli artisti coinvolti hanno potuto prendere parte al progetto grazie alle gallerie private che da sempre hanno portato il contemporaneo a Napoli, vedi Lia Rumma, che ha dichiarato, rispetto alla partecipazione del “suo” Kentridge: «Le autorità hanno capito che un grande artista stava passando in città e che era importante chiedergli di lasciare un segno».
Le stazioni della metropolitana stanno lentamente lasciando anche il segno nella sensibilità dei napoletani: salvo rari casi, le grandi “installazioni” non sono state prese di mira dai vandali, costatazione rimarcata ultimamente dall’Assessore alla cultura Di Nocera che ha sottolineato l’ “orgoglio” dei cittadini per la propria rete sotterranea. Un miracolo in una metropoli che sembra avere una vocazione all’autodistruzione, e che dà un’impressione alquanto diversa, anche ai turisti più liberi di muoversi e di segnare le stazioni sulla loro personale “Art-map”, rispetto alla cronaca nera quotidiana.
Le prossime fermate? Michelangelo Pistoletto, Rebecca Horn, Ilya e Emilia Kabakov e Shirin Neshat. Entro il 2015. Con la speranza che Napoli possa davvero prendere fiato “dall’arte dei trasporti”.