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Ebbene non eravamo intervenuti e ora lo facciamo. Perché? Perché possiamo farlo senza dovere scrivere neppure una parola. Perché possiamo farlo semplicemente riportando e facendo nostra – fino all’ultima virgola – l’intervista che il professor Andrea Carandini (archeologo tra i più celebri ed autorevoli al mondo e professore ordinario alla Sapienza) ha rilasciato al Corriere della Sera. La riportiamo testualmente perché, riteniamo, non si tratta di un’intervista, si tratta invece di un manifesto, si tratta di come un intellettuale deve, per definirsi tale, approcciarsi alle questioni che vedono contrapposta la tutela del nostro passato alla costruzione del nostro futuro. L’intervista che in calce riportiamo scrive la parola “fine” sulla discarica di polemiche riguardanti questa e altre grandi opere con eccessiva leggerezza bloccate da burocrati di serie c nascosti dietro ad una maschera della cultura abusivamente e indegnamente indossata. L’intervista che in calce riportiamo definisce e imposta le linee guida inderogabili per lo sviluppo a medio e lungo periodo dei centri storici delle nostre città tutte. Da Milano a Milazzo.
ROMA – «Chi ama l’archeologia ama la vita: perché si interpreta il passato con gli strumenti del presente. L’archeologia è come la conchiglia dell’umanità: morto il mollusco, resta l’involucro che va conservato e fatto amare, non imposto come un principio autoritario dell’alto. Altrimenti c’è il rischio che qualcuno, alla fine, sfasci la conchiglia credendo di diventare libero». Andrea Carandini, ordinario di Archeologia e storia dell’arte greca e romana a «La Sapienza», dall’alto dei suoi 71 anni ben portati sembra più contemporaneo di tanti giovanissimi.
È possibile conciliare conservazione e sviluppo, professore, in un’Italia disseminata di beni culturali sotto terra?
«L’Italia, da zero a quindici metri di profondità, presenta sempre vestigia romane o alto-medioevali. Cosa facciamo? Non viviamo più per le nostre civiltà sepolte?».
Qual è la via da imboccare?
«Non quella di alcuni talebani della conservazione che si trovano in certe madrasse, ovvero in alcune pieghe dell’amministrazione e in associazioni con una visione ultrastatalista. Provocano fenomeni di insofferenza verso la cultura della tutela. Se si crea inimicizia tra vita contemporanea e storia, l’organismo sociale finirà con l’espellere la seconda. Sempre meno fondi al ministero… E allora sì, saranno guai. Ovvero la completa vittoria della cultura della distruzione».
Arriviamo al concreto. Cosa fare per il parcheggio al Pincio?
«Il Codice dei beni culturali, votato dalla destra come dalla sinistra, non afferma che “nulla può mai essere toccato”. La legge prevede asportazioni in rari casi di interesse generale, decisione affidata alla direzione generale dell’Archeologia. Per quanto ne so, quelle vestigia toccano il 40% della superficie interessata al progetto. Condizione fortunata, a Roma, dove la trama è sempre fitta e continua. Lo stesso Valadier potrebbe essere intervenuto eliminando escrescenze per realizzare le rampe… L’ostacolo, insomma, c’è. Si tratta di stabilire il da farsi tra male minore e male maggiore. Ma il progetto può essere modificato e rivisto. Fin qui la soprintendenza ha gestito in modo ineccepibile l’intero capitolo. E vogliamo dire una cosa?».
Prego, professor Carandini.
«Molte opere pubbliche hanno favorito straordinari ritrovamenti. Penso alla magnifica villa romana e all’Auditorium romano di Renzo Piano. Chi avrebbe potuto movimentare metri e metri di argilla? Il progetto venne cambiato e nella Città della musica adesso c’è il grande museo della villa. Nei cantieri della metropolitana romana sono emersi molti reperti che in futuro potranno essere ammirati, magari nelle stazioni».
E qual è la sua personale valutazione sulla scelta del Pincio?
«Per me un parcheggio in centro vale la scomparsa di tante auto in sosta per le strade. Così avviene in tante capitali. I colli romani al loro interno, finita la “crosta” dei quindici metri, non hanno reperti. Sfruttiamo questa opportunità, dico».
Sostiene Massimo Cacciari: se incontriamo un tesoro fermiamoci. Se c’è un muretto del ‘700 sulla via di una grande opera pubblica, per favore buttiamolo giù…
«Vorrei fosse chiaro un principio, a scanso di equivoci. Se si incontra un reperto di valore, fermarsi è d’obbligo, sempre e comunque. Il problema scientifico non si pone. Ma di fronte a un muro, mettiamo per ipotesi la parte di piccole fondamenta di un edificio, si può studiare o in parte spostare. Ma poi si può procedere. Bisogna lavorare con un occhio alla tutela del patrimonio e un occhio alla vita. Qual è il maggior danno: tenersi il muretto e fare a meno, mettiamo, del tram di Mestre?».
Diranno che lei ha sposato la tesi dei costruttori…
«Non ho altro interesse che il mio profondo, autentico amore per l’archeologia. Ma voglio difenderlo da tanti, troppi infantilismi. Sta nella saggezza dei popoli trovare il giusto equilibrio nella legge».
Paolo Conti – Corriere della Sera – venerdì 22 agosto 2008
[exibart]
Finalmente qualcuno che inizia a smarcarsi dalla mortifera cultura conservativa senza se e senza ma che ammorba questo vecchio paese!
Sono fermamente contrario allo scempio del possibile parcheggio al Pincio. Se la questione della sospensione del progetto è legata al solo motivo del pagamento della pesante penale di 6 milioni di euro, suggerisco al Sindaco Alemanno una strada percorribile. Si tratta dell’introduzione di una tassa di scopo (di lieve entità) finalizzata ai lavori di recupero dell’area archeologica del Pincio e a copertura della penale. Questa potrebbe essere una soluzione razionale che ritengo sarebbe gradita ai tanti romani che non vogliono vedere stravolto uno dei luoghi più belli di Roma.