Il Museo Pushkin di Mosca, che detiene la palma dell’istituzione museale più importante della Russia, secondo forse solo all’Hermitage di San Pietroburgo, ha messo in dialogo la sua collezione storica con l’opera di uno dei più innovativi artisti che lavorano con la tecnologia in un senso che, paradossalmente, potremmo definire ormai classico: Fabrizio Plessi. “L’anima della pietra” è la mostra che occupa, dal 5 giugno, le sale del museo russo, provocando segrete complicità e inaspettate somiglianze tra realtà digitale e arte antica, tra finzione e verità.
La sfida non era facile: il Pushkin è una sorta di tempio sacro dell’arte, con la sua collezione che va dai ritratti del Fayum a Rembrandt, dal tesoro di Priamo agli Impressionisti, ma soprattutto con una sezione mozzafiato che riassume tutta la grande scultura occidentale: dai frontoni dei tempi di Olympia e Egina ai capolavori di Policleto e della statuaria greca classica ed ellenistica, fino al Toro Farnese, dai monumenti equestri di Donatello e Verrocchio al David e alla Pietà di Michelangelo. Ovviamente si tratta di calchi fatti eseguire agli inizi del XX Secolo per finalità pedagogiche ed enciclopediche ma il senso di spiazzamento è vero, totale, avvolgente.
È così che Plessi ha deciso di forzare la mano e raddoppiare il conflitto tra verità e finzione, in particolare nell’opera che dà il titolo alla mostra: L’anima della pietra. Da un blocco di pietra vero sembra uscire e scorrere nel monitor di un metaldetector un busto antico il cui modello è collocato a terra, ognuno in una delle sedici strutture che contengono la propria scultura. Tre processi a confronto – materiale grezzo, busto ai raggi x e busto reale, che però è a sua volta un calco – in opere installative ed elettroniche che segnano un punto evolutivo importante nell’attività di Plessi, dopo le sue spettacolari incursioni nella Valle dei Templi di Agrigento, nel 2011, con Monumenta, e nella Sala dei Giganti di Mantova, nel 2013, con Rolling Stones. Proprio questa opera è a sua volta ricostruita in un’altra sala del Pushkin, adiacente alla collezione di calchi di sculture di Fidia dal Partenone, separata e immersa nel buio, sorta di caverna nera a fronte della versione mantovana inserita nella sala affrescata a Palazzo Te da Giulio Romano come fosse un cinemascope. Ma la magia rimane la stessa: pietre che cadono dentro tavoli rovesciati in cui scorre acqua elettronica.
È la prima mostra personale di Plessi in Russia, in un anno importante per due motivi: uno per la mancanza (epocale) dell’Italia ai mondiali di calcio, l’altro per l’avvicinamento annunciato alla Russia da parte del governo italiano a fronte delle minacce di nuove sanzioni da parte della Comunità Europea. Seppure l’arte di Plessi non abbia niente di politico o ideologico, né vuole averlo e neppure questa è l’intenzione dei curatori Olga Shishko (Museo Pushkin), Silvia Burini e Giuseppe Barbieri (Ca’ Foscari di Venezia), del museo stesso o dell’IIC di Mosca che ha supportato il progetto nella figura di Olga Strada, l’evento espositivo si pone in un momento storicamente caldo per il nostro Paese e, per questo, ancor più degno di risonanza.
Segno che l’opera di Plessi è ancora capace di trovarsi al centro delle cose, di rovesciare gli schemi precostituiti, di essere attuale, di provocare pensieri e sensazioni, come ormai l’artista, che è nato nel 1940, riesce a fare con sempre rinnovato vigore fin dagli anni Sessanta, quando immaginò tutto ciò che sarebbe stato possibile utilizzando la tecnologia, che però all’epoca ancora non era disponibile nei modi in cui lo sarebbe stato anni dopo e forse, oggi, fin troppo facilmente. (Marco Tonelli)