Appena si entra nel magazzino del sale n. 3 affacciato al canale della Giudecca, la prima cosa che viene da chiedersi è: ma l’Accademia può permettersi una mostra del genere? In uno stato in cui si pensa a tenere attaccati i cristi alle pareti più che l’intonaco sui muri, un’operazione così accurata e imponente sembra davvero difficile da collegare ad un progetto didattico. Negli ultimi anni siamo stati abituati a vedere le possibili interazioni tra arte e management, assentendo e sentendo come i creativi fossero indispensabili alle industrie del territorio, però raramente ci è capitato di veder concretizzata una buona pratica di relazione come è avvenuto in questo caso.
Entrare nel magazzino del sale 3 per “Glassound”, in questi giorni di Glass week, è un’esperienza immersiva del tutto significativa. Si percepisce un filo comune teso, in grado di incidere le estetiche senza renderle isole separate e prive di senso. Il suono, i video, le presenze di vetro sono innestate le une nelle altre senza che se ne percepiscano i margini di attrito. In alcuni casi il suono è parte integrante degli oggetti, mentre il video attraversa la trasparenza del vetro. Più che le singole opere, pur di grande impatto, quello che rimane addosso durante la visita è una sensazione quasi fisica, casse vetri e corpi vibrano nella stessa placenta, si percepisce qualcosa in grado di dare compattezza al tutto. E quel qualcosa, ci spiega Gaetano Mainenti, ideatore del progetto e docente del corso di decorazione B all’Accademia di Venezia, è la relazione.
Parliamo a lungo con Mainenti, sul bordo di Fondamenta Vetrai a Murano, di come tutto questo sia stato reso possibile e quello che emerge è proprio la consapevolezza e la capacità di gestione della complessità. Una complessità che si ritrova a vari livelli, da quello prettamente didattico, relativo al metodo utilizzato con gli studenti perché potessero entrare nell’idea e sviscerarla facendo squadra tra loro, alla rete di sponsorizzazioni tutte tecniche che hanno reso la mostra sostenibile, fino alla più raffinata rielaborazione di quello che significhi oggi trovare un contatto sostanziale con la tradizione, avendo il coraggio di superarla. Le tecniche tradizionali sono state affrontate non in maniera superficiale o esteriore, ma anatomizzate grazie ad una pratica di lavoro che ha portato gli studenti ad affrontare i temi, i significati, il valore delle loro scelte prima di approcciare il materiale, che di per se stesso implica decisioni e consapevolezze radicali.
Gaetano Mainenti vive a Murano, ha un figlio che va a scuola con i figli dei maestri vetrai, entra nei loro bar e fa la spesa negli stessi supermercati. Lui però osserva l’isola non solo dall’interno, ma anche dalla cattedra di decorazione dell’accademia, una disciplina tradizionale in grado di collocarlo nel solco della tradizione, pur permettendogli di esplorare quei territori di confine che l’arte applicata può praticare. Ci si trova sul ciglio di un baratro dal quale però è possibile edificare dei ponti e guardare lontano, proprio perché qui si possono far confluire saperi in grado di dar vigore al pensiero. Solo poi il pensiero diventerà oggetto.
Il “programma” si pone in continuità con le attività avviate negli anni scorsi nell’ambito della progettazione del vetro d’arte dall’atelier di Decorazione B, realizzate attraverso la sinergia con le realtà culturali e produttive del territorio. In particolare, il progetto GLASSOUND nasce come sviluppo di progetti emersi nel corso del workshop “Ma a che serve la luce” realizzato nell’anno accademico 2016/2017 dall’atelier di Decorazione B dell’Accademia e concluso con l’esibizione “ARA – Percorsi di progettazione per il vetro artistico contemporaneo all’Accademia di Belle Arti di Venezia” realizzata lo scorso anno a Palazzo Da Mula a Murano: l’intero progetto ha visto affiancati nel lavoro Mainetti, Giulia Buono e Signoretto Lampadari Murano.
Un percorso temporale che sembra essersi incarnato in modo maturo in quello espositivo. All’ingresso della mostra ci si trova di fronte ad un lungo elenco di nomi, mentre le opere sono sprovviste di attribuzione, un segno forte e leggibile per trasmettere una pratica creativa che è stata realmente corale, frutto di processi volti a far esperire a livello fisico i concetti a coloro che poi li avrebbero tradotti in forme. Un modo militante per difendere il valore culturale dell’arte, il suo farsi portatrice di significati e non solo di tecniche o estetiche. Se per introiettare la trasparenza gli studenti sono stati portati ad attraversare il fumo, per sviluppare l’idea ognuno ha dovuto confrontarsi, esporsi e lavorare. Un modo per dare ancora più forza a quell’idea di arte relazionale che può essere esplosa in mille direzioni diverse, ma sempre sottintende il superamento della contemplazione dell’oggetto a favore di una coscienza dell’eterogenia del mondo e di quanto la sua frammentarietà entri in ogni interstizio dell’accadere. (Penzo+Fiore)