È Charlotte Prodger ad aggiudicarsi la trentaquattresima edizione del Turner Prize, contrariamente ai pronostici, che davano per favorito il collettivo Forensic Architecture, nella shortlist dei finalisti insieme a Naeem Mohaiemen e Luke Willis Thompson. Ad annunciarlo, durante la cerimonia di presentazione alla Tate Britain, la scrittrice Chimamanda Ngozi Adichie. Il premio è stato istituito nel 1984, viene assegnato annualmente un artista nato o che lavora in Gran Bretagna e che ha presentato una grande personale nell’ultimo anno e, dal 2016, non prevede più il limite di età fissato a 50 anni. Al vincitore vanno 25mila sterline, mentre a ciascuno dei finalisti ne spettano 5mila.
Prodger, nata nel 1974 a Bournemouth, lavora con il media dell’immagine in movimento da venti anni, non è ancora universalmente riconosciuta ma già da qualche tempo gravita nei radar che contano. La mostra in lizza era la sua personale alla Bergen Kunsthall, in Norvegia, che ha visto la presentazione di due film, Bridgit e Stoneymollan Trail. La sua è una regia totalmente affidata allo scorrere dei momenti e dei contesti, uno passaggio rapido e apparentemente casuale di eventi quotidiani ripresi dalla camera dell’iPhone, la campagna scozzese dai finestrini di un treno, una maglietta stesa ad asciugare, un gatto che gioca con una lampada. In Bridgit è condensato il lavoro di un anno, includendo anche diversi frammenti autobiografici emersi dal suo passato, con riferimenti ai temi dell’identità e del queer, in un intreccio fluido tra gender, tempi e immagini. La sua ricerca rappresenta “l’uso più profondo di un dispositivo tanto prosaico come la fotocamera dell’iPhone, che abbia mai visto nell’arte fino a ora”, ha commentato Alex Farquharson, direttore della Tate Britain, che ha presieduto la giuria, formata quest’anno da Oliver Basciano, Elena Filipovic, Lisa Le Feuvre e Tom McCarthy. Farquharson ha detto che il suo lavoro evoca la tradizione dell’arte del paesaggio e ha un notevole peso psicologico, “finendo per essere così inaspettatamente comunicativo”.
“Non è stato facile arrivare a un risultato, ma penso che la giuria sia stata concorde nel sentire che questo lavoro stava introducendo qualcosa di nuovo nel mezzo filmico, come questo sia usato nell’arte e come ciò si rifletta sulla politica e nella vita personale e sociale di oggi”, ha detto Farquharson.