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È giusto riservare valore “museale” alle tragedie e agli orrori della storia? Conservare strutture che hanno segnato le pagine più nere dell’umanità? Campi di concentramento, fosse comuni, luoghi del totalitarismo e del calpestamento di ogni diritto umano? Probabilmente sì. Sono i luoghi di fronte ai quali, malgrado tutto, come aveva scritto Georges Didi-Hubermann, nascono “immagini”, che hanno funzione di “memoria”. È accaduto con i campi di sterminio nazisti, è accaduto più recentemente con il Memoriale all’11 settembre, ed è proposta di questi giorni di trasformare i “Killing Fields”, i campi di massacro cambogiani nati sotto il regime comunista del dittatore Pol Pot, al secolo Saloth Sar, dal 1975 al 1979, in un museo.
Diventati celebri anche in occidente grazie al film del 1984 di Roland Joffé, tradotto in italiano col titolo “Urla del silenzio”, facevano parte della struttura di coercizione del “governo”, anche i campi di lavoro forzato, dove la maggior parte della popolazione cambogiana fu internata, in condizioni durissime che causavano facilmente la morte per sfinimento o fame e dove la minima ribellione o il minimo errore erano spesso puniti con la morte. In questi anni sono state analizzate sul territorio dello stato del sud-est asiatico oltre 20mila fosse comuni, da parte del Dc-Cam Mapping Program e dell’Università di Yale, che hanno stimato un genocidio che oscilla tra il milione e 700mila e i due milioni e mezzo di morti in poco meno di 4 anni.
Ora il governo vuole mostrare al mondo le terribili testimonianze di quell’agghiacciante sterminio riunite nel sito di Anlong Veng. Il ministro del turismo cambogiano Ruos Ren ha spiegato: «Si tratta dell’ultimo quartier generale di quel regime genocida. Con questo progetto vogliamo far conoscere ai giovani cambogiani la loro storia. Per impedire che tutto ciò si possa ripetere».
Nhem En, fotografo ufficiale nel centro torture di Tuol Sleng a Phnom Penh, incaricato di immortalare i volti di migliaia di prigionieri prima delle esecuzioni di massa, spera ora di riuscire ad aprire una sua mostra permanente ad Anlong Veng, che fu l’ultima roccaforte dei khmer rossi a cadere: una “macchina fotografica della morte”, per la giustizia sommaria dell’arte. L’unico mezzo per poter riscattare all’oblio e all’odio una delle pagine più ignobili della storia.