Uno spazio discreto, vicino alla laguna nord, che prende forma in modo cadenzato e condiviso, grazie al lavoro di squadra degli artisti e dei curatori che ne faranno il loro punto nevralgico, durante la Venice Glass Week 2017. Andrea Morucchio, Michele Burato e Silvano Rubino, curati da Luca Berta e Francesca Giubilei di Venice Art Factory, sono attori anomali nel panorama dell’arte veneziana. «Per questi tre artisti il vetro è la grammatica di un discorso. Non la materia con cui dare semplicemente corpo a un’idea. Tutti e tre sono artisti contemporanei che lavorano con diversi supporti, oltre al vetro». Proprio questa poliedricità nell’uso dei materiali fa sfuggire i tre artisti dalla nicchia, non sempre così flessibile, della produzione locale.
La disposizione delle opere, il dialogo che intercorre tra il nero, il rosso e il bianco all’interno della galleria, rimandano a un materiale che qui si vuole aggressivo, tutt’altra che fragile, tutt’altro che lezioso. «I tre artisti di IN-Equilibrio hanno lavorato assieme, componendo quella che può essere definita senza esitazioni un’installazione collettiva, il cui rigore e la cui plurivocità è uno degli esempi più nitidi di come il vetro possa farsi arte al di là di se stesso in quanto materiale».
Gli elmi di Morucchio e la sua croce modulata in cui campeggia una cesura forte, foriera di una monumentalità persa, fanno eco al bianco del lattimo usato come peso nei pendoli privi di oscillazione di Burato, stalattiti cristallizzate nell’istante in cui si congela la goccia. Il vetro, quando viene lavorato, è gioco con la gravità , è dialogo intessuto con una massa di materia incandescente in costante dis-equilibrio tra lo stare e il cadere. Gli elmi che dovrebbero proteggere sono invece frangibili e muti nel nascondere il loro vuoto. Si guardano uno di fronte all’altro come a sfidarsi ma l’impossibilità di muovere il primo passo rende vana la tensione. Il vetro, quando è nero, assume una forza quasi definitiva. Così come il bianco del vetro lattimo gioca sull’ambiguità di ciò che è, tradendo un vetro che si vorrebbe per tradizione più trasparente e più prezioso.
Dritta di fronte all’ingresso, spartiacque e punto di bilanciamento tra il bianco e il nero, sta la trasparenza che mostra un rosso sfacciato attraverso venti corpi appesi come serpenti trattenuti per la coda. Opera tutt’altro che inerte, racchiude un movimento contenuto e limitato: impedito. Qui il vetro è mostrato in tutta la sua fragilità ma non si sottrae alla forza di un dinamismo inespresso. Gli elementi sono attaccati a un’asse in acciaio attraverso ganci da macellaio e illuminati da un neon rosa della stessa sostanza di ciò che illumina.
Questa non è l’unica opera di Silvano Rubino visibile a Venezia in questi giorni. All’interno dello storico Caffè Florian, che ormai porta avanti da anni un filone espositivo legato all’arte e al vetro, le Identità sospese dell’artista veneziano si concretizzano in sculture quasi marmoree che ne indagano l’essenza: «Amo rincorrere l’identità indefinibile dell’opera, per incontrare nell’atto dell’inseguimento la condizione essenziale del mistero, dove pathos e poesia ne coniugano il divenire». (Penzo+Fiore)