Lo abbiamo amato un po’ tutti, possiamo confessarlo ora che ne abbiamo avuto abbastanza, forse al punto da non poterne più, da detestarlo. Ma poi detestare “chi” se non ha identità, volto, nome? Potrebbe essere tutti e nessuno, ovunque e da nessuna parte, tanto da tenere contemporaneamente una mostra personale in ognuno dei cinque continenti. Solo nel 2020 in Italia ne sono state organizzate tre, una dietro l’altra (Genova: novembre 2019-maggio 2020, Ferrara: maggio-settembre 2020, Roma: settembre 2020-aprile 2021), neanche fosse Chagall o Mirò. A che cosa saranno servite?
I suoi interventi sul muro di cemento eretto al confine tra stato di Israele e territori palestinesi, il suo luna park anti Disney world Dismaland, le intrusioni nei musei appendendo alle pareti dipinti sovversivi e ironici, i graffiti sui muri pubblici per cui si levano dibattitti se restaurarli o meno, considerarli atti vandalici o opere d’arte, fino all’opera capace di tagliarsi a fettine durante un’asta e aumentare così il suo valore: tutto questo ci ha esaltato, divertito, fatto pensare, posto interrogativi. Sull’arte e il sistema dell’arte, sul diritto di autore e di proprietà, sul mercato, su ciò che è lecito o meno e sull’arbitrarietà di questi parametri nell’arte, soprattutto contemporanea, sempre più fluidi, inesistenti, vuoti.
Eppure qualcosa non torna più nel gioco di Banksy, proprio perché come al solito l’anarchico “bombarolo” estetico è diventato pedina nel sistema e da elemento di disturbo e alterazione è ormai parte integrante, funzionale al mostrificio, alla falsificazione, all’industria culturale, al sospetto di essere di fronte a qualcosa di non più sincero come era agli inizi, non autorizzati, nella periferia di Bristol. E soprattutto un’impresa commerciale che vende opere in asta a centinaia di migliaia di dollari (il record si è stabilito a 630mila euro).
Che questa sia la fine naturale di ogni avanguardia e secessione da che mondo è mondo nessuno lo mette in dubbio: da voce indipendente e rivoluzionaria a ingranaggio del sistema, nessuno è sfuggito a questa regola, dagli Impressionisti ai Futuristi, dai Surrealisti all’Arte povera, da Duchamp ai writers americani della metà degli anni ‘70, se poi si pensa che perfino le più dirompenti performances sono diventate oggi arte istituzionale, hanno fatto scuola, tanto da poter essere rifatte, insegnate o musealizzate. Come dichiarato da un esperto di graffitismo e writers come Vittorio Parisi, «la street art di oggi è prodotta per abbellire e, quindi, è perfettamente affine alla tutela della proprietà, intesa nella sua doppia accezione: da un lato come bene o patrimonio, pubblico o privato che sia; dall’altro come decoro, pulizia, gradevolezza». Inutile aggiungere altro.
Eppure Banksy sembrava essere capace di evitare, mantenendo l’anonimato, l’integrazione negli ingranaggi. Niente di più illusorio però nell’epoca di internet, degli hashtag collettivi, della rete partecipativa e decentralizzata, delle identità sempre più frammentate e indefinibili, magari sul modello TEDx, Wikipedia, You Tube, #MeToo o dei Bitcoin (il cosiddetto New Power illustrato da Jeremy Heimans e Henry Timms). Ciò che è “fuori” oggi è la consuetudine da rispettare e Banksy non è riuscito a fuggire a questa logica del contrario, a questa tagliola sociale e economico-commerciale, tanto da diventare un brand più appetibile (perché più facile) e popolare (perché senza identità) di quello messo di Damien Hirst, che almeno ha dalla sua aspirazioni alla terribilità dell’esistenza, costo proibitivo di alcune produzioni e quell’insana mania di potenza e megalomania che caratterizza gli artisti che ambiscono passare alla storia. Banksy no, non è riuscito a forzare il gioco spostando l’asticella più in alto, semmai più in basso. Proprio perché essendo privo di identità tutti lo possono essere, tanto più che basta una bomboletta spray e un po’ di inventiva, neanche troppa, e il gioco è fatto. Spiace dirlo, in ciò è più simile a quei gruppi terroristici che creano il loro brand del male nel nome di un marchio di cui tutti gli aspiranti suicidi-assassini possono appropriarsi e fregiarsi nel rivendicare le azioni sanguinarie, proprio perché non c’è una struttura piramidale che dà le direttive.
Banksy ha abolito questa struttura rimanendo anonimo ma questo anonimato è degenerato nella sovraesposizione, nel merchandising, dove non solo tutti possono “farlo” ma tutti possono “esserlo”. Se l’obiettivo era distruggere ultimi residui dei criteri di verità e autorialità il successo è assicurato.
Oggetto facile per chiunque voglia fare cassa e appuntarsi sul petto una medaglia al disvalore (parola che potrebbe non dispiacere a Banksy), il fenomeno ha il tempo contato, proprio come un virus per cui si aspetta il vaccino: rimarrà un ricordo, per quanto brutto.
Il supereroe mascherato che deve celare la propria identità per il bene di chi gli è vicino può rinunciare al costume e alla maschera, può ignorare o perdere i superpoteri, ma di lui ci sarà sempre bisogno, almeno nel mondo dell’immaginario, per combattere il Male (ingiustizie, soprusi, criminalità, invasori, alieni, conquistatori del mondo). Di Banksy ormai, di cui fra un po’ verrà forse realizzato anche un museo e che, visto che non ha identità, pur “dimenticato” potrà persino non morire mai, rimane il fatto che i suoi superpoteri sono quelli che gli ha dato un sistema ma non quelli che lui ha introdotto in esso. Come avverrà in un prossimo futuro per Koons, Cattelan, Weiwei (ma non per Duchamp, Warhol, Beuys) fra qualche anno diremo anche di lui “tanto rumore per nulla” (che poi è in effetti quello che dice già di sé e della sua opera Cattelan!). Se questo lo racconteremo in un libro di storia dell’arte o del costume, come dire…è un’altra faccenda!
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