Pubblichiamo la terza parte dell’intervista a Vittorio Parisi (qui potete trovare la prima, mentre qui la seconda), direttore degli studi e della ricerca dell’École nationale supérieure d’art et centro d’arte contemporanea Villa Arson a Nizza. Dottore di ricerca in estetica presso l’Université Panthéon-Sorbonne di Parigi, dove ha insegnato dal 2015 al 2019, gli studi di Parisi indagano il rapporto tra il graffiti writing, la street art e i non-luoghi urbani. Nel 2013-14 è stato visiting scholar presso il dipartimento di filosofia della Columbia University a New York e curatorial intern alla Dia Art Foundation.
Considerato per anni un movimento spontaneo e outsider, un semplice prodotto della sottocultura di massa, il linguaggio del graffitismo, del writing, della Street Art a distanza di tempo è entrato prepotentemente nella scena artistica “ufficiale”, nei musei, nelle gallerie, nelle mostre, nelle fiere d’arte. Ci spieghi questo passaggio?
«Parrà sorprendente, ma l’ingresso del writing nel cosiddetto white cube avviene prestissimo, già nel 1972 quando Hugo Martinez, allora studente di sociologia presso il City College of New York e affascinato dai graffiti spuntati qua e là su muri e treni in quegli anni, decise di riunire alcuni writers (tra cui Phase 2 e Taki 183) in un collettivo, la United Graffiti Artists, organizzando una prima mostra intitolata Graffiti Art Show e tenutasi nei locali del college.
È in assoluto la prima volta che la parola “graffiti” viene associata alle parole “art” e “artist”, e questo è il primo indicatore di quel processo che le sociologhe francesi Nathalie Heinich e Roberta Shapiro hanno definito “artificazione”, e cioè quando una certa pratica creativa viene progressivamente riconosciuta e trattata, collettivamente e istituzionalmente, come arte, e al tempo stesso favorendo il riconoscimento dei suoi autori come artisti. Nel 1973 la mostra viene esposta per la prima volta in una galleria, la Razor Gallery a SoHo, e nel 1974 per la prima volta in un museo, il Museum of Science and Industry di Chicago.
Il writing ha destato quasi subito l’interesse del mondo istituzionale, al punto che, dieci anni dopo il suo articolo del 1976, Goffredo Parise si rammaricò di trovare alcuni di quei “graffitisti” esposti alla Biennale di Venezia: “quell’arte spontanea e popolare che avevo addirittura ipotizzato come nazional popolare americana, ha invece i suoi tardi epigoni, i suoi integrati”.
Questo interesse del mondo istituzionale per il writing ha conosciuto momenti di alterna fortuna: si è accresciuto molto negli anni Ottanta, ha avuto una battuta d’arresto nei Novanta e fino ai primi Duemila, per poi tornare prepotentemente d’attualità in prossimità degli anni Dieci assieme alla street art (e cioè a quei linguaggi alternativi al lettering e più prossimi all’arte figurativa e astratta sperimentati dagli stessi writers nel corso del decennio). Internet e i festival hanno ovviamente contribuito molto a ravvivare questo interesse».
Possiamo a questo punto parlare di post-street art e di post-writing? In quali termini a tuo avviso?
«Di post-graffiti si parlava sui forum online tipo Fatcap o Ekosystem nei primi anni Duemila, quando bisognava dare un nome a queste nuove tendenze venute fuori dal writing. Alla fine street art è il termine che l’ha spuntata.
Oggi il problema della terminologia torna d’attualità perché proviamo un certo pudore nel continuare a chiamare street art o writing qualcosa che, almeno concettualmente, da lì proviene, e tuttavia ormai avviene fra le pareti di una galleria o di un museo. Rafael Schacter, che ho citato precedentemente, ha proposto il termine “intermural art”, per sottolineare questo strano ibrido tra qualcosa che non è mai del tutto fuori o dentro le mura, ma per l’appunto rimane sospeso fra il dentro e il fuori.
Per quanto io trovi questa proposta efficace – oltre che simbolica dello statuto ambiguo del writing e della street art rispetto all’arte contemporanea – in realtà mi disturba relativamente il fatto di continuare a chiamare writing o street art un’opera esposta in una galleria o in un museo, a patto che essa mostri di non occultare e di non banalizzare la traccia dell’appartenenza al mondo dal quale proviene. Tutto dipende, insomma, da come l’artista (e all’occorrenza il curatore) è in grado di tradurre una creatività che ha origine nello spazio urbano all’interno del white cube.
Non si tratta quindi banalmente di fare sulle pareti di un museo quello che si farebbe fuori, ma appunto di tradurlo, condurlo attraverso il filtro che separa il fuori e il dentro del mondo istituzionale, dargli una nuova forma e, nel farlo, conservarne la specificità estetica, il “fuori luogo”.
Un esempio perfetto è, a mio avviso, la performance Bulky del già citato Alexandre Bavard: questi si è filmato nell’atto di taggare illegalmente alcuni muri, ha osservato i suoi stessi movimenti e ne ha ricavato una partitura coreografica scritta, sulla quale nel giugno 2017 ha fatto danzare alcuni performer al Palais de Tokyo».
Quale pensi sia il contributo della street art all’arte contemporanea?
«Penso che opere come quella descritta qui sopra, e in generale questo principio di traduzione tra il di fuori e il di dentro del white cube, costituiscano il contributo più interessante, innovativo e singolare che il writing e la street art stanno dando all’arte contemporanea. Ma è un qualcosa che si sta compiendo in questi anni e i cui frutti saranno apprezzati appieno (leggasi interpretati, criticati, storicizzati) tra un po’ di anni».
Quale pensi sia il contributo della street art alla pittura contemporanea?
«108 e Canemorto in Italia, Antwan Horfee e Saeio in Francia, sono tutti artisti provenienti dal writing che hanno sviluppato una pratica pittorica su tela (o carta) capace di portare con sé quella traccia di cui parlavo prima.
Ciò avviene alternando agli strumenti di pittura tradizionali gli “attrezzi del mestiere” del vandalo, e cioè lo spray, i marker, i rulli: tutti strumenti in grado di trasmettere quella traccia – per esempio attraverso la rarefazione tipica dei pigmenti che la bomboletta irrora sulle superfici – e quindi riconciliare tutti questi artisti alla loro comune provenienza storica, alla cultura che hanno ereditato, per caso o per scelta, dalla New York dei Phase 2 e dei Rammellzee, dei Dondi e delle Lady Pink, degli A-One e dei Blade. Il contributo più grande, spesso ce ne dimentichiamo, l’hanno dato proprio i giovanissimi writers newyorkesi quando per primi hanno iniziato ad utilizzare lo spray come strumento di vera e propria creazione pittorica».
Ci sono molte donne street artist. Questo è un aspetto forse poco conosciuto? Trovi che ci sia differenza tra un approccio maschile e uno femminile alla street art? In caso affermativo, quale?
«Nel 2014 lavorai a una ricerca che aveva proprio il fine di indagare le dinamiche di genere all’interno di questo mondo. Per esempio, facendo una cernita dei nomi delle artiste rappresentate in un corpus di libri dedicati alla street art, trovai che queste erano appena 18 su 287, una disparità di rappresentazione impressionante.
Ora, è naturalmente impossibile dare una misura precisa del numero di writers o street artist donne e uomini, ma sono incline a pensare che le prime siano comunque meno dei secondi, anche perché come raccontato in un ottimo saggio di Nancy Macdonald del 2001 (The Graffiti Subculture: Youth, Masculinity and Identity in London and New York), anche grazie alle preziose testimonianze di pioniere come Lady Pink o Claw, il mondo del writing newyorkese era estremamente mascolinizzato.
Oggi ci sono senz’altro molte più donne rispetto a quegli anni, ma anche rispetto al 2016 quando la mia ricerca fu pubblicata. Nella stessa provai, per mezzo di un sondaggio visivo, a testare i pregiudizi di genere sottoponendo agli osservatori una serie di opere e chiedendo se, a loro avviso, gli autori fossero uomini o donne, e di motivare il perché. Ad interessarmi maggiormente erano naturalmente le motivazioni, e per esempio opere astratte, prive di colorazioni particolari o dettagli ornamentali, sono state quasi sistematicamente attribuite “d’ufficio” a mani maschili, partendo dal pregiudizio abbastanza comune e banale che una street art femminile si distinguerebbe da quella maschile per certi motivi ricorrenti quali soggetti “delicati”, elementi floreali, riferimenti all’amore, colori pastello, etc.
Io non penso che in un contesto sociale e culturale come il nostro, dove si dà ormai quasi per scontato che il genere si definisca culturalmente e non biologicamente, sia d’attualità distinguere tra un “approccio maschile” e un “approccio femminile”. Possiamo semmai parlare di approcci femministi, più che femminili, e presumere che nella maggior parte dei casi questi approcci provengano da donne, ma neanche questo è sempre vero.
In generale, mi allineo al pensiero di Linda Nochlin e al suo scritto ormai famosissimo, Why there have been no great women artists?, apparso su Artnews nel 1971: “the mere choice of a certain realm of subject matter, or the restriction to certain subjects, is not to be equated with a style, much less with some sort of quintessentially feminine style […] ‘Feminine aesthetics’ preconceptions lie not on a misconception of what femininity is, but rather on a misconception of what art is, on ‘the naïve idea that art is the direct, personal expression of individual emotional experience, a translation of personal life into visual terms”».
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