Jean Renè, uno dei fotografi e degli street artist più famosi del mondo, arriva a San Paolo, in Brasile, con un nuovo murales di grandi dimensioni presso uno dei punti di riferimento più importanti della città: il complesso sportivo di Pacaembù. Capolavoro architettonico e uno dei luoghi simbolo, tra i più importanti punti di riferimento per la città e i cittadini, che ha ospitato la Coppa del Mondo Fifa del 1950.
Lo stadio, costruito in stile art déco negli anni’30 e inaugurato negli anni ’40, è stato protagonista di eventi di importanza mondiale. Metafora e simbolo di un Brasile giovane, rivolto verso il futuro e che cerca di combattere il degrado.
L’opera di Jr, infatti, rende omaggio alla città di San Paolo e al suo forte legame con il calcio che ne ha caratterizzato la storia, ma allo stesso tempo cerca di sensibilizzare e rivolgersi ai giovani, rimasti ai margini del paese. Infatti, l’artista ha voluto raffigurare un grande occhio rivolto verso l’alto, uno sguardo fiducioso di un giovane residente di una comunità svantaggiata in Brasile.
Jean Renè si è sempre distinto nella sua ricerca per il desiderio di cambiare il mondo attraverso l’arte e di riuscire a lasciare un segno o un messaggio negli spazi pubblici. Quest’ultima opera d’arte riproduce la volontà di ridare dignità e rispetto a coloro che sono in condizione di svantaggio o sono rimasti trascurati.
L’opera, realizzata in collaborazione con Galleria Continua e la Galeria Nara Roesler, è formata da 1.480 strisce di carta che coprono l’iconica tribuna, trasformandola in un’unica grande tela in cui campeggia un grande occhio. La scelta di realizzare il murales in questo modo, evidenzia l’epoca attuale di grandi trasformazioni mentre lo sguardo dei giovani è rivolto verso un cambiamento, un futuro diverso dal presente.
Jr è un’artista generoso, che vede l’arte senza confini e limiti. In più occasioni ha dato prova del suo altruismo e sempre in Brasile, a Rio, durante il lockdown ha aperto una scuola nelle favelas. La sua arte è un’arte sociale, dedita alle zone con evidenti disequilibri socio-politici. Riguardo il suo lavoro sottolinea: “Abbiamo esibito foto e storie in tanti posti, storie che viaggiano. Si capisce che respiro ha il progetto. A volte l’arte può cambiare il mondo anche se non ha il dovere di farlo, di cambiare le cose pratiche, ma di cambiare la percezione delle cose. L’Arte può cambiare come vediamo il mondo, può creare un’analogia. Anzi, il fatto che l’arte in sé non cambia le cose ne fa uno spazio neutrale per scambi e discussioni, ed è questo ci permette di cambiarlo.”
Tramite carta e colla riesce ad affrontare argomenti importanti creando delle piccole, seppur significative, rivoluzioni nel mondo, intersecando fotografia e street art. “La maggior parte dei posti che ho visitato li ho scelti dopo averne sentito parlare dai media. Ad esempio, nel giugno 2008, mentre guardavo la TV a Parigi ho sentito di questa cosa terribile successa a Rio de Janeiro. Nella maggior favela brasiliana, Providencia, tre ragazzi, erano stati arrestati dalla polizia militare perché trovati senza documenti. L’esercito li ha presi ma invece di portarli in commissariato, li ha lasciati in una favela nemica dove sono stati uccisi. Sono rimasto scioccato. Tutto il Brasile era sotto shock. Ho sentito che era una delle favelas più violente, controllata dal più grande cartello di narcotrafficanti. Così ho deciso di andarci. Quando sono arrivato, non avevo contatti. Non c’era nessuno sul posto, nessuna agenzia turistica, nessuna ONG, niente. Siamo andati in giro e ho incontrato una donna e le ho mostrato il mio libro e mi ha detto: Sai una cosa, abbiamo fame di cultura. Abbiamo bisogno di cultura là fuori. Allora sono andato e ho cominciato con i ragazzi. Ho fatto alcune foto, il giorno dopo ho portato dei poster e li abbiamo incollati. Il giorno dopo ancora sono tornato ed erano già graffiati. Andava bene così, volevo che quest’arte la sentissero propria. Poi ho tenuto un raduno in piazza e alcune donne sono venute. Erano imparentate con i ragazzi uccisi. Volevano tutte urlare la loro storia. Dopo quel giorno tutta la favela mi ha dato l’Ok. Ho fatto altre foto e il progetto è iniziato. I boss della droga erano preoccupati, perché noi filmavamo sul posto, ma io gli ho detto: “Sapete una cosa? Non mi interessa filmare la violenza e le armi. Quelle si vedono già sui media. Voglio solo far vedere questa vita incredibile. La vedo intorno a me ogni giorno qui. Ho messo un poster della nonna di uno dei ragazzi uccisi sulle scale dove i ragazzi sono stati arrestati. Tutti capivano il senso del nostro progetto. E poi abbiamo ricoperto tutto. Tutta la collina. Abbiamo continuato a viaggiare. Siamo andati in Africa, Sudan, Sierra Leone, Liberia, in Kenya. In posti devastati dalla guerra tipo Monrovia, la gente viene subito da te. Vogliono sapere quello che fai. Mi chiedevano: “Qual è lo scopo del tuo progetto”. Credo sia la curiosità della gente la loro vera motivazione a partecipare. E poi diventa qualcosa di più, diventa un desiderio, un bisogno.”
D’altronde, la sua è una street art che promuove un cambiamento, dona visibilità a diverse comunità e categorie sparse nel mondo spronando sempre un’attenta riflessione.
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