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Non solo “tracce” di Blu. Intervista a Fabiola Naldi
Arte contemporanea
Critica d’arte sui generis, damsiana doc, docente e “fenomenologa”, Fabiola Naldi ha da poco pubblicato Tracce di Blu, un libro che, ci dice, forse parla più di lei, delle sue scelte e delle sue posizioni critiche che dell’artista Blu che ha scelto di non “mescolarsi più con il sistema artistico”. Con lei — da sempre interessata all’arte urbana a 360° — abbiamo parlato di writing, street art, di ieri e di oggi, del rapporto “turbolento” tra la street art col mercato, della sua istituzionalizzazione, della relazione con la moda e dei suoi possibili scenari futuri. Passando dai writer newyorkesi a Francesca Alinovi, dal fenomeno canadese Adbusters a Banksy.
Da tanti anni ti occupi di street art e hai instaurato con molti artisti (ai tempi giovanissimi) un dialogo importante. È successo anche con Blu che hai seguito sin dai suoi esordi. È infatti appena uscito il tuo Tracce di Blu per postmedia books. Che però “non è un libro su Blu”. Partiamo da qui.
Tracce di Blu si presenta volutamente come un libro di piccole dimensioni, privo di indice, bibliografia generale e di tutti i comuni apparati accademici. Ha un prezzo contenuto, tutte le immagini sono state recuperate dalla rete e sono presentati contributi editi e inediti, tutti “dipendenti” dalla mia storia critica. Nella parte centrale della pubblicazione sono riportati i testi scritti negli anni della mia frequentazione con Blu e riferiti a mostre in cui io lo invitai e in cui decise di partecipare, ma nell’insieme il volume forse parla più di me, delle mie scelte, delle mie posizioni critiche e del mio modo di essere una critica militante. Blu è solo un pretesto, come se i testi da me scritti per lui anni fa diventassero nuovi ipertesti per approfondire alcuni argomenti vicini all’arte urbana. All’inizio doveva addirittura essere più breve e sintetico perché non volevo che, in nessun modo, si pensasse io stessi “speculando” sulla notorietà dell’artista di cui si parla. Il motivo è semplice e riguarda non solo il rispetto verso la scelta di Blu di non “mescolarsi” più con il sistema artistico, ma anche la mia necessità di “esistenza scientifica” in tempi artistici differenti. Da sempre sono una critica d’arte “anomala” con visioni precise, spesso difficili e non sempre condivise: la mia storia accademica lo dimostra e per questo, a volte, ho pagato e a caro prezzo. Non posso prescindere da posizioni anche esistenziali che mi hanno portato a studiare, scrivere, insegnare applicando una metodologia precisa (la fenomenologia degli stili) con la necessità di affrontare gli ostacoli più che scansarli. Di fatto, pur avendo una specializzazione e un dottorato di ricerca in Storia dell’arte contemporanea ho scelto di seguire la carriera della fenomenologa, non per evitare la filologia e la storiografia piuttosto per mantenere la “presa” salda sul presente.
Facciamo ordine: writer versus street art. C’è una bella differenza.
Parto molto lontano per dirti che la prima generazione di writer newyorkesi rinnegava e rifiutava la parola ‘graffiti’ perché subito strumentalizzata dalla stampa americana per identificarli come un pericolo, come qualcosa da cancellare ed eliminare. È stato l’arrivo in Europa nei primi anni Ottanta a sdoganare l’etichetta Graffiti Writer solo perché nell’antico continente il riferimento storico era più aulico, simbolico e celebrativo. Pur con queste premesse, sempre la stampa ha ulteriormente stravolto il senso del termine, riportando il tutto a qualcosa da temere e contro cui lottare, anche politicamente, in termini di sicurezza, “tolleranza zero” e preservazione del decoro urbano. Non solo esiste una differenza di stili e riferimenti visivi fra writing e street art ma anche i supporti di riferimento non sono sempre gli stessi. Stiamo parlando di pratiche che prevedono anche materiali e dispositivi differenti: bombolette e tappi di differente marca e modello e poster, adesivi, stencil e vernice al quarzo dall’altra parte. Da un lato lettere, puppet, fondali e stili ripetuti, ampliati e dall’altro lato riferimenti visivi e iconografici diretti, di facile messaggio e consumazione.
Sono finiti i tempi in cui Keith Haring si aggirava per la metropolitana di New York lasciando tracce, molte delle quali sono state poi “prelevate”, “recuperate” e “capitalizzate”. Vogliamo dire una volta per tutte che la street art si è “istituzionalizzata”?
Partiamo dal dire che l’attualità dell’arte urbana è distante anni luce dagli anni ’70 e ’80 a cui spesso si fa riferimento. Il periodo in cui Keith Haring iniziò a seguire quasi ossessivamente la scena del writing newyorkese (non più solo treni ma superfici più ampie ed evoluzione della disciplina a tre passaggi – tag, throw-up e masterpiece) per poi crescere come artista attraverso un proprio codice linguistico, non esiste più. Diciamo anche che Keith Haring (e alcuni momenti della maturità artistica di Jean-Michel Basquiat) ha poco a che vedere con la disciplina del writing e del lettering, mentre ha di fatto posto le basi per un uso della pittura che si fa ambiente, spazio pubblico e attitudine postmoderna in grado di invadere ogni contesto visivo, dall’illustrazione, al video, alla moda, alla performance. Il termine street art appare nel 1985 in un testo omonimo di Allan Schwartzman e si rivolge a pratiche più promiscue, eterogenee che agiscono sempre nella strada e sulla strada ma con approcci molto diversi dalle regole del writing. Il “momento” in cui gli ambiti delle due discipline inizia a confondersi, scontrarsi e mescolarsi visibilmente avviene solo negli anni Novanta per poi istituzionalizzarsi nei Duemila. Tengo però a precisare che il modo in cui io uso il termine ‘istituzionalizzazione’ è opposto alla lettura negativa in cui si accusa una pratica underground di essere scesa a patti con il sistema, con l’apparato economico. L’espansione di queste pratiche, tutte differenti fra loro, è avvenuta non solo perché si è moltiplicata in luoghi e contesti differenti, ma perché, attraverso la rete, è stata vista da molte più persone pur non vivendo negli spazi in cui questi artisti erano intervenuti. Non me ne vogliano molti degli amici che appartengono a queste discipline, ma anche chiamarli artisti nell’accezione classica è sbagliato: il loro “dondolare” fra la luce del sistema e il buio della strada notturna rende la loro posizione non chiara da decifrare a uno sguardo casuale e disattento. Se poi aggiungiamo che per molti di loro la pratica illegale si muove parallela a quella “legale” allora si capirà bene perché molti di loro siano accusati di tradimento, vengano fraintesi e siano difficili da inserire in una casella dell’arte più precisa.
Sono giunta alla conclusione che sia una forma d’arte ma non sia arte per come la si identifica entro i luoghi di esposizione, commercializzazione e storicizzazione. Per questo le mostre che parlano di arte urbana sono molto difficili, inadatte a una fruizione classica e di fatto tradiscono una parte della stessa pratica che esiste solo in strada con tutte le conseguenze dell’instabilità dello spazio pubblico. Entro le larghissime maglie dei processi urbani ci sono certamente autori che si vogliono confrontare con il sistema artistico e di conseguenza si sono istituzionalizzati (per stare al senso della tua domanda) ma ce ne sono molti altri che non solo non vogliono starci ma vogliono pure dettare tutte le regole del loro esistere come operatori culturali. Per queste figure una risposta non basta, ma un piccolo libro può aiutare a comprendere perché non si possa generalizzare troppo.
Street art e mercato: rapporto turbolento. A che punto siamo?
Il mercato e l’arte sono elementi imprescindibili di un matrimonio che non prevede divorzio o separazione. Il rapporto in sé funziona, anche se per ciascun caso i termini della relazione possono essere molto diversi. La differenza in questo caso la fa il singolo operatore che decide se stare alle stesse regole oppure rifiutarle. Già il fatto che io possa scrivere tutto ciò, fa capire che siamo in un territorio complesso, contraddittorio e a tratti paradossale e che non sempre possa funzionare. Di fatto è una parte del continuo dibattito sulla coerenza delle pratiche urbane e di come alcuni componenti delle discipline si atteggino a paladini della “fedeltà alla linea” e poi siano disposti a tutto pur di essere parte del meccanismo che apparentemente rifiutano. Anche nell’arte urbana diventa molto difficile restare solo alla superficie apparente dell’opera senza contestualizzare un percorso e provare a definirlo in ogni suo aspetto. Aggiungo anche che la turbolenza in corso nel rapporto fra arte e mercato si mostra sempre più evidente quando tali pratiche si sviluppano nello spazio pubblico, quello in cui non ci sono le pareti di una galleria o di un museo a definire, contestualizzare e difendere i processi espressivi.
Street art e protesta politica: un ricordo lontano? C’è ancora margine nella street art per la libertà di pensiero attraverso azioni spontanee e indipendenti?
Anche in questo caso tutto sta nel circostanziare i termini e i contesti di riferimento: se per protesta politica prendiamo in riferimento gli anni Sessanta e Settanta allora ciò che accade oggi non ha nulla a che vedere con quel riferimento. Molte delle “opposizioni” messe in campo da artisti come Blu, Moses & Taps, Utah & Ether, 1Up o una parte dei Pixadores brasiliani agiscono non solo all’interno della struttura stilistica della disciplina ma anche sulla scia degli Adbusters canadesi di fine anni Ottanta (da poco uscito per Meltemi, Adbusters. Ironia e distopia dell’attivismo visuale, a cura di Franco Berardi Bifo e Lorenza Pignatti, ndr), del guerriglia marketing, dell’hacking e dello spaesamento linguistico tipico del situazionismo. Credo che ci sia ancora un ampio margine per indipendenza, spontaneità e libertà d’azione a patto che si sappia fin da subito che nel mondo in cui viviamo tutto ciò è in parte considerato illegale e quindi passibile di sanzioni. Elementi di ordine e di disordine sono alla base della nascita, della crescita e della recente evoluzione dell’arte urbana e ritengo che sia responsabilità anche delle istituzioni tenerne conto a meno che non si voglia correre il rischio non solo di snaturare gli stessi movimenti, ma anche di modificarli o, peggio, di orientarli.
Negli ultimi anni c’è stato un revival di Francesca Alinovi che, ricordiamo, è stata tra le prime studiose in Italia a credere e supportare artisti come Keith Haring e Jean-Michel Basquiat. Peccato però che i suoi testi facciano ancora fatica ad essere tradotti ed “esportati” all’estero. Perché?
Francesca Alinovi resta a tutt’oggi una figura fondamentale per chi studia l’arte contemporanea in relazione al writing americano di prima e seconda generazione (per lo stesso editore di Tracce di Blu è uscito l’anno scorso Francesca Alinovi, a cura di Matteo Bergamini e Veronica Santi, ndr). Senza nulla togliere a Haring o Basquiat, l’Alinovi si spinse molto oltre. Chi l’ha conosciuta ricorda bene come, da sola, si addentrasse in quartieri della città considerati allora impraticabili per la propria sicurezza. E fu lì che si scontrò con la vera frontiera estetica e stilistica che raccontò tornando in Italia: Futura 2000, Daze, Crash, Toxic, A-One, Dondi tra gli altri. Francesca Alinovi comprese come quel linguaggio nel tempo si sarebbe espanso ben oltre i muri malmessi o i vagoni della metropolitana di New York. Ancora prima che scrivere dei singoli writer, l’Alinovi scrisse di una nuova percezione dello spazio urbano, della fruizione eterogenea di processi relazionali che si sarebbero poi presentati a pieno titolo solo sul finire degli anni Novanta. Anche io mi sono chiesta molte volte perché molti dei suoi amici, coloro che avevano scritto o lavorato con lei, non sono andati oltre la semplice celebrazione annuale di un premio (parlo del Premio Alinovi poi divenuto Alinovi-Daolio per la successiva perdita di Roberto Daolio). Ritengo invece che solo quando verranno tradotti alcuni dei suoi saggi, ci sarà la vera consacrazione internazionale di una critica d’arte che meriterebbe riconoscimenti mondiali e ti annuncio che sto lavorando perché accada quanto prima.
Ho visto il docufilm su Banksy intitolato BANKSY. L’ARTE DELLA RIBELLIONE, firmato da Elio Espana. Un lungometraggio che ripercorre la carriera di Banksy e in cui emergono sostanzialmente due aspetti: Banksy è (stato) un writer mediocre; Banksy è uno street artist e artista concettuale intelligente e politicamente convincente. Tra i giudizi più diffusi: Banksy non vale nulla, Banksy ha barbaramente copiato il lavoro di Blek Le Rat, Banksy si è venduto al mercato, Banksy è un rivoluzionario, Banksy è un genio, Banksy ha “smascherato” il sistema del mercato dell’arte contemporanea… Tu dove ti collochi?
Premesso che il film di cui parli io non l’ho visto, quindi non mi sembra opportuno esprimere un giudizio, posso però dirti che considero Banksy un artista perfettamente calato nel proprio tempo e simile per molti aspetti alla Young British Art celebrata da Charles Saatchi nella mostra del 1997 Sensation. È un operatore culturale che rispecchia perfettamente il rifiuto delle grandi narrazioni, la manifestazione di un sarcasmo e di un’ironia tipici, direbbe Jean-François Lyotard, dei processi postmoderni di fine millennio. Banksy appartiene a quella generazione di artisti che agli inizi degli anni Novanta del XX secolo decide di “insultare” il sistema, tuffandocisi dentro e alimentando le sue stesse contraddizioni. Come writer a Bristol tutti sanno che non era un grande talento, ma non appena ha sostituito la bomboletta con gli stencil e gli interventi di guerriglia art nei musei si è dimostrato un artista degno di nota. Blek Le Rat indubbiamente interveniva nella capitale francese ben prima di Banksy con quei piccoli topini che dai sotterranei risalivano sui muri di Parigi, ma piuttosto che parlare di copia preferirei riflettere sull’appropriazione di elementi, codici, simboli già appartenenti all’immaginario urbano collettivo. Viviamo in un’epoca in cui il “furto” e “l’appropriazione” concettuale possono certamente essere considerati un pericolo, ma anche una pratica molto nota a chi conosce lettrismo, situazionismo, il fenomeno degli Squatter o dei nomi collettivi come Luther Blissett.
Street art e moda: un rapporto sempre più stretto.
Ogni decennio a partire dagli anni Settanta in avanti ha prodotto un rapporto sempre più stretto fra i linguaggi della strada e la moda. Nella prima generazione del writing newyorkese c’era chi indossava i tipici indumenti dei muratori o degli operai perché si riteneva che fossero abbastanza resistenti per permettere di scavalcare muri, recinzioni, sbarramenti oppure si sceglievano vestiti eleganti per non farsi riconoscere dalle forze dell’ordine e mimetizzarsi nelle linee della metropolitana. Come non ricordare Fiorucci? Come non intravedere una stretta relazione fra i processi artistici urbani e scenari musicali quali l’hip hop e l’hardcore punk? Posso dirti con certezza che spetta alla moda il primato della relazione reciproca fra i due mondi e non certamente all’arte di sistema.
Il futuro della street art?
Se si smette di considerarla l’unica possibilità di rigenerazione delle aree periferiche nelle città e si spiega agli amministratori pubblici inesperti di non trattarla come l’unica possibilità di “abbellire” aree degradate, qualcosa accadrà. Posso solo aggiungere che mi aspetto sempre nuovi stimoli dalle nuove generazioni e sono pronta ad essere stupita in termini di superfici, stili e approcci allo spazio urbano.