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Style Wars, dalla strada attraverso l’arte: sfida, rottura e riappropriazione
Street Art
Style wars è la nuova rubrica di exibart dedicata alla fenomenologia della strada. Le parole writing, street art, graffiti, muralismo vengono spesso scambiate per sinonimi, ma significano davvero la stessa cosa? Ha ancora senso parlare di arte di strada senza sfida, rottura, riappropriazione? È possibile tracciare un confine tra vandalismo e arte? Per rispondere a queste e tante altre domande ci siamo affidati a Martin, attivista, writer e muralista, attivo da 25 anni con diverse crew (MDS, GS, VB e MNP) con lo pseudonimo di FLOOD (aka SOVIET). Nel 2001 partecipa alla fondazione di VOLKSWRITERZ, prima crew apertamente militante e antagonista, con cui dipinge a sostegno di lotte e iniziative politiche e sociali ancora oggi.
In questo episodio parliamo di riqualificazione e riappropriazione, passando per liberismo e capitalismo. Per tutti gli altri episodi di Style wars clicca qui.
Ogni quartiere sembra parlare un diverso linguaggio, anche per strada. La bellezza di questo meltingpot si legge nei diversi linguaggi accumunati dall’essere storie tutte consumate nello stesso posto. Uno stesso quartiere che con le sue gioie e le sue difficoltà riunisce i suoi ospiti. Ma cosa succede quando progetti di riqualificazione vengono organizzati dall’alto e non hanno nessun legame col territorio, né tantomeno con chi lo vive?
«Qua entriamo nuovamente su un terreno spinoso, intanto perché possiamo guardare alla questione da diversi punti di vista. In questo caso potremmo partire dalla definizione degli attori in campo: 1) L’amministrazione comunale 2) I consigli di zona/municipi 3) Gli abitanti del quartiere 4) I writers della città 5) Gli artisti chiamati a commissione. Bene, si tratta naturalmente di relazioni incrociate basate su diversi rapporti di forza. Io da parte mia ho sempre pensato che nel momento in cui la street art o il writing vengono utilizzati dalle amministrazioni per portare questa famosa “riqualificazione” ci si debba muovere con delle sinergie imprescindibili, coinvolgendo gli abitanti in modo costruttivo e non calando il tocco di cosmesi dall’alto. Ho trovato interessante anche le riflessioni che ponevano una questione molto importante: va bene, tu mi porti qui il tuo artista internazionale/famoso/quotato e gli fai fare la facciata cieca di un palazzo, e questo secondo te dovrebbe migliorare le condizioni di vita di questo quartiere… ma cosa hai ottenuto diciamo con questo, diciamo, tocco di cosmesi? Una potenziale murata data in gestione liberamente ai writers nasconde la volontà di risistemare il parchetto che c’è di fronte? Ci hai messo due panchine? I giochi per i bimbi? Tutto questo per dire che se a mancare è la qualità della vita per mancanza di risorse, socialità, cultura, risposte ai bisogni (di chi il quartiere lo abita), un bel disegno su una facciata sicuramente sarà più bello di una parete grigia, ma ragionando in prospettiva, sarà e resterà solo un bel disegno. Se poi tutto questo coincide col fatto che le motivazioni che ti spingono a scegliere questo tipo di strada della riqualificazione hanno alla base puri interessi e fini commerciali allora si sta creando una frattura con il quartiere. E con buona pace di chi ti descriverà come tutti quanti guadagneranno dai futuri “tour della street art” come indotto o si sceglie di legare questo tipo di attività con la costruzione di senso e cultura dal basso o avranno sempre poco senso. Io ho sempre pensato che si possa partire da un lavoro strutturale di educazione artistica e civica partendo dalle scuole, dai CAG, da tutte quelle strutture che i quartieri effettivamente li vivono, coinvolgendo tutti soggetti in prima persona, soprattutto attraverso laboratori propedeutici. Questo per fare in modo che se arte commissionata dev’essere, che allora vengano coinvolti anche gli abitanti nella scelta di quelli che saranno gli ospiti pagati. Tutto questo fermo restando che per quanto riguarda invece il writing le uniche soluzioni sono muri dove si possa dipingere liberamente messi a disposizione dei writers e/o la costruzione di nuove hall of fame attraverso iniziative culturali come jam che abbiano quindi anche un riscontro nel proporre al quartiere un pacchetto che comprenda musica, aggregazione, dibattiti…».
Pensi sia possibile rintracciare legami tra la perdita di valori della società capitalista e liberista e la nascita della street art?
«Anche qui ci sono una serie di discorsi che si incrociano e sovrappongono…da un certo punto di vista il writing nasce come risposta individuale da parte di persone ridotte alla marginalità. Il fatto che tu vada a scrivere il tuo nome e che l’obbiettivo sia l’emergere personalmente, piuttosto che andare a scrivere slogan di denuncia sui muri è l’esatta rappresentazione dei valori di una società non inclusiva come quella liberista. Io mi schiero nell’illegalità, pratico una riappropriazione degli spazi urbani e allo stesso tempo prendo i miei rischi per… l’autopromozione!! IO spingo me stesso e la mia crew, IO voglio diventare famoso, IO scelgo il terreno della competitività come autoaffermazione di me stesso. Non credo sia un caso che il writing abbia attecchito in questa maniera in tutti 5 i continenti se non ci fosse dietro proprio questo. Le rivendicazioni politiche lasciano lo spazio alla promozione di sé, qualcosa di tutto sommato aleatorio e profondamente individualista: lo specchio della società che ci circonda, con li suo bisogno di primeggiare, apparire, “diventare qualcuno”. Se volessimo individuare la svolta che porterà all’evoluzione del fenomeno in quella che poi definiremo street art, la ritroveremmo a ridosso di una globale crescita della repressione del mondo dei graffiti (conseguente all’esasperazione generata nei cittadini sia dalla presenza delle scritte che dalla martellante propaganda a favore di questo ideale di decoro con cui si riempiono la bocca) e nello stesso tempo a una breccia che si crea nel mondo del business dell’arte disponibile a creare una nuova nicchia di mercato attenta a queste nuove forme espressive. Quindi la strada che porta all’affermazione di questo nuovo fenomeno sposta il baricentro di tutto in maniera notevole. Resta la promozione personale, in questo caso della propria “arte” e non più semplicemente del proprio nome, ma questa avviene all’interno di un’operazione di recupero del fenomeno, che a differenza del writing, che potremmo definire apertamente ostile ad istituzioni e cittadinanza, inizia a manifestare una disponibilità al dialogo. Il cittadino trova le diverse forme di street art, che nella maggioranza dei casi utilizzano uno stile figurativo, più intelligibili e gradevoli del writing e di conseguenza ne accetta e tollera la presenza, le amministrazioni trovano una generazione di artisti in grado di trasformare grandi superfici con una certa velocità e con dei costi che non sono necessariamente proibitivi: in buona sostanza ci guadagnano tutti. Resta da capire cosa contraddistingue una decorazione industriale con fini pubblicitari da un murales, da un’opera di street art ecc…».
È lecito ora chiedersi come possa esistere un’arte di strada senza sfida, rottura, riappropriazione?
«C’è stato recentemente un dibattito sul discorso del termine legale/illegale e se fosse il caso sostituirlo con commissionato/non commissionato, partendo quindi dal presupposto errato che qualsiasi azione che io vada ad effettuare sui muri o altre superfici delle città sia sistematicamente “arte”. Si tratta di definire qual è la differenza tra un dipinto, un dipinto di grandi dimensioni, un affresco, un murales, un trompe l’oleil e quella che a questo punto abbiamo deciso di chiamare street art. Non mi permetto di esprimere giudizi lapidari, anche e soprattutto perché non ho studiato Belle Arti, non sono un curatore né un collezionista, tuttavia essendo un writer credo che le qualità che trasformano delle belle decorazioni in street art risiedano esattamente nella rottura e nella riappropriazione, oltre naturalmente al livello di ricerca ed evoluzione espressiva che si è riusciti a raggiungere nel proprio percorso di conquista di uno stile originale e personale. Però i graffiti dei primi anni ’70 hanno colpito l’immaginario perché la gente andava a dipingere i treni senza permesso: QUELLO faceva la differenza. Se il comune di New York City avesse fatto un bando destinato ad una ventina di artisti per decorare i treni della metropolitana sarebbe stata la stessa cosa? Chiunque abbia preso in mano una bomboletta, un marker e si è messo a scrivere in giro lo ha fatto per spirito di emulazione, perché ha visto qualcosa che gli piaceva e ha voluto ripetere il gesto. Ma gran parte della benzina che fa funzionare il motore dell’emulazione e della riproducibilità sta nel rischio, nella sfida. Quando scopri che per scrivere il tuo nome su un treno dovrai imbarcarti in una specie di avventura, tutto acquista un valore maggiore. E sai che ti sputtanerai i polmoni, che rischi multe e denunce, non che ti stai costruendo una competenza professionale potenzialmente ben remunerata. Se lo spirito di emulazione di oggi diventa un ragazzino che guarda una facciata dell’artista X e ne rimane affascinato, il meccanismo che si va a mettere in moto sarà: anch’io voglio fare l’artista, dipingere in largo formato e arrivare domani a prendere 15 mila euro per una facciata e vendere le mie tele a 5mila ero l’una. ecco, direi che è abbastanza evidente la differenza tra un “voglio fare un wholecar sulla linea 2 della metro” e “voglio esporre al PAC”».