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Style wars: dalla strada, sulla strada, per la strada, attraverso l’arte
Street Art
Style wars è la nuova rubrica di exibart dedicata alla fenomenologia della strada. Le parole writing, street art, graffiti, muralismo vengono spesso scambiate per sinonimi, ma significano davvero la stessa cosa? Ha ancora senso parlare di arte di strada senza sfida, rottura, riappropriazione? È possibile tracciare un confine tra vandalismo e arte? Per rispondere a queste e tante altre domande ci siamo affidati a Martin attivista, writer e muralista, attivo da 25 anni con diverse crew (MDS, GS, VB e MNP) con lo pseudonimo di FLOOD (aka SOVIET). Nel 2001 partecipa alla fondazione di VOLKSWRITERZ, prima crew apertamente militante e antagonista, con cui dipinge a sostegno di lotte e iniziative politiche e sociali ancora oggi.
Cos’è il writing, è possibile catalogarlo con le stesse categorie che utilizziamo per l’arte?
Se dovessimo banalmente ridurre la descrizione di cosa sia davvero il writing forse la sintesi più corretta ed estrema sarebbe “scrivere il proprio nome”. Entrando un po’ più nel merito della questione potremmo dire che rappresenta una forma di riappropriazione più o meno cosciente di spazi del tessuto urbano utilizzando tecniche che fanno riferimento alla comunicazione visiva (fonti, figurativi, altri elementi decorativi), in cui in ogni caso la centralità è rappresentata dalla propria firma o tag. Se ci pensiamo bene il writing nasce in modo abbastanza casuale, e si evolve progressivamente attraverso dei passaggi definiti: dai primi Tagger (l’adesivo Hallo my name is che si usava a scuola da tenere sulla maglietta col proprio nome) applicati su fermate del bus con il proprio pseudonimo e la strada di appartenenza alle più dinamiche scritte con i marker, si arriva poi alla scelta di utilizzare un media come lo spray, che permette di realizzare opere (o pezzi) di maggiore dimensione in tempi più brevi. Tutta questa evoluzione va di pari passo con la scelta delle superfici da aggredire, con l’immediata predilezione per i treni della metropolitana che avrebbero garantito al proprio nome di girare per tutta la città ed avere quindi una visibilità maggiore. Questo è quindi il punto di partenza di un fenomeno che nella sua evoluzione arriverà poi a esprimersi sui muri della città sia con quelli che definiremo bombing, ovvero pezzi semplici realizzati illegalmente in giro, per strada, sia con quelle che possiamo definire produzioni, e cioè composizioni più studiate e complesse, sui muri delle hall of fame, murate completamente dedicate allo sviluppo del proprio stile insieme alla propria crew.
Tornando invece alla domanda che mi poni: il writing è da considerarsi arte? Secondo quale criterio? Sono un forte sostenitore che essere un writer non significhi essere un artista, ma sono altrettanto convinto che vi siano writer che nel loro percorso di evoluzione e crescita stilistica abbiano invece oltrepassato quel confine che fa sì che io li possa considerare artisti a tutti gli effetti. Non è poi un caso che molti di questi writers/artisti siano poi persone che hanno studiato storia dell’arte o magari design, e che quindi abbiano un approccio più maturo alla disciplina del writing e che spesso abbiano un’attività parallela che li porta a esprimersi con altri linguaggi su altri media, tele comprese. Il writing penso che però vada analizzato e giudicato con delle categorie sue che vanno dall’originalità dello stile alla forza espressiva delle lettere, alla genialità delle soluzioni degli incastri e della composizione all’utilizzo del colore… può esserci più stile in una semplice tag che in una pezzata di 10m x 3m. Un writer riconosce immediatamente tutti questi aspetti, così come anche un pezzo molto semplice e grezzo può valere più di cento wildstyles. Se vogliamo rifarci a un’altra categoria dell’arte classica, più che del “distacco tra accademia e uomo comune” qui c’è proprio la completa assenza dell’accademia, e qui risiede uno degli aspetti più interessanti e originali del fenomeno: i pionieri che si sono inventati il writing ne hanno scritto la storia e le regole facendolo, considerato che non esistevano esempi di come andasse fatto. Facendo una forzatura potrei trovare delle analogie con il punk per alcuni versi… tu prendi la comunicazione visiva (dalla pubblicità ai fumetti, dalla grafica editoriale ai manifesti affissi in strada sino calligrafia) ne prendi alcuni aspetti, li semplifichi e li spari sui treni/muri/ecc costruendo un linguaggio nuovo e soprattutto uno strumento accessibile a tutti. E tutto questo all’interno di quel meccanismo di sfida e conquista dei diversi spazi del tessuto urbano contro tutto e tutti: autorità, benpensanti e gli altri writers stessi, con i quali si costruisce un meccanismo di competizione costante. E ritengo che l’unicità di questo fenomeno, e conseguentemente ciò che lo rende interessante, risieda proprio in quest’ultimo aspetto, che poi è anche alla base della sua diffusione spontanea e virale per tutti i cinque continenti in un lasso di tempo molto breve, trasformando il writing in un movimento globale. Altra cosa è parlare del writing fuori dal suo habitat, e cioè la strada e l’illegalità, inserito invece in un contesto come una galleria o un museo, ma quello credo sia un altro discorso.
Writing e Street Art sono la stessa cosa o quali sono le differenze ed analogie che caratterizzano le due forme espressive?
Direi che ci sono delle differenze abissali così come possiamo trovare delle analogie, ma stiamo comunque parlando di due cose diverse. Forse potremmo considerare writers che sceglievano di misurarsi con la parte figurativa della disciplina più simili agli street artists, ma esclusivamente per il fatto che writing non è altro che il suo significato: scrivere e modificare le lettere. In questo senso è molto più semplice trovare delle similitudini con un calligrafo piuttosto che con uno street artist che lavora coi poster o uno che sviluppa in maniera seriale il suo logotipo o personaggio. Quello che si può dire è che a cavallo della comparsa del fenomeno della street art a livello globale, quindi inizio millennio, molti writers probabilmente incuriositi da una nuova forma di espressione meno rigida della customizzazione e composizione delle lettere hanno scelto di cimentarsi con nuovi linguaggi espressivi. Uno degli aspetti più interessanti di questo fenomeno è anche una modalità di relazione con il tessuto urbano diversa ed originale rispetto ai codici del writing: una comunicazione completamente libera ti permette di interagire con le superfici sulle quali sceglierai di dipingere in modo molto più organico, diventando così qualcosa di più comprensibile e intelligibile ai non addetti ai lavori, e cioè chi gli spazi urbani li vive ed abita, rispetto al writing che resta qualcosa fatto dai writers per gli altri writers, e quindi interno alla tribù. Sintetizzando potremmo dire che del writing la street art mantiene, almeno originariamente, l’aspetto di riappropriazione del tessuto urbano per comunicare, differenziandosi invece nella totale libertà espressiva e artistica essendo svincolata dalle lettere. Mettici anche il grande successo raccolto dalle prime mostre o iniziative legate a questa nuova arte di strada e uno comprende facilmente come l’elemento novità e la dimensione di apprezzamento e successiva prospettiva di professionalizzarsi siano state le motivazioni che hanno portato tanta gente a scegliere di cambiare completamente stile e approccio. Oggi che il fenomeno si è consolidato mi sembra che ci sia una distanza maggiore tra i due mondi rispetto a quel periodo in cui vi fu un’effettiva contaminazione. Con il tempo abbiamo assistito a un progressivo assorbimento del fenomeno all’interno di un quadro legale e istituzionale, cambiando de facto alcune peculiarità del suo approccio iniziale: mentre oggi puoi vedere sempre più spesso grandi opere realizzate sulle facciate cieche dei palazzi, difficilmente vedrai carrozze della metropolitana dipinte da street artists.
[…] Per tutti gli episodi di “Style Wars” clicca qui. […]
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