“Style Wars” è la nuova rubrica di exibart dedicata alla fenomenologia della strada. Le parole writing, street art, graffiti, muralismo vengono spesso scambiate per sinonimi, ma significano davvero la stessa cosa? Ha ancora senso parlare di arte di strada senza sfida, rottura, riappropriazione? È possibile tracciare un confine tra vandalismo e arte? Per rispondere a queste e tante altre domande ci siamo affidati a Martin attivista, writer e muralista, attivo da 25 anni con diverse crew (MDS, GS, VB e MNP) con lo pseudonimo di FLOOD (aka SOVIET). Nel 2001 partecipa alla fondazione di VOLKSWRITERZ, prima crew apertamente militante e antagonista, con cui dipinge a sostegno di lotte e iniziative politiche e sociali ancora oggi. In questa seconda parte di “Style Wars” ci occuperemo delle due istanze legate all’autorialità ed anonimato e al caso Geco.
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Autorialità e anonimato, si tratta di altri due concetti molto problematici nell’analisi di questo fenomeno. Due fenomeni che nelle recenti logiche di mercato paiono ribaltarsi e contraddirsi…
Questa è un’altra questione interessante: se vogliamo andare a vedere il writing in realtà è una sorta di grido disperato volto ad uscire dall’anonimato (sociale in questo caso) nel quale sei relegato dalle tue condizioni di classe in una società in cui vieni facilmente emarginato. In linea di massima il concetto che sta alla base di tutta questa storia è (e resta) lo stesso, ovvero I write for fame, creando una dicotomia abbastanza contraddittoria. Da un lato scegli l’anonimato attraverso un alter ego, dall’altro il tuo desiderio è diventare famoso. Certamente dobbiamo fare delle distinzioni tra quella fase che potremmo considerare come gli albori del movimento e quella attuale, caratterizzata da tutt’altro tipo di atteggiamento nei confronti dei writers. Inizialmente si tratta di qualcosa che genera un’enorme curiosità, tanto che i primi writers verranno progressivamente invitati nelle gallerie e trattati alla stregua di artisti. Ad essere sincero non so quanti di loro abbiano iniziato a scrivere il loro nome pensando di essere artisti (qui poi ci sarebbe ulteriormente da approfondire il fatto che in lingua inglese vi sia: graffiti artist, tattoo artist, make up artist, insomma è un termine che usi in mille circostanze) o quanto piuttosto sollevato l’interesse del mondo del mercato dell’arte rispetto al writing non abbiano pensato che si trattasse di una buona occasione per cambiare vita. Tutto ad un tratto ti ritrovi circondato da curatori e collezionisti che ti pagano per fare quello che facevi illegalmente per passione e vieni anche considerato un artista… niente male! Se entriamo invece nel merito di quello che è la fase contemporanea le cose sono molto diverse: il writer è solitamente percepito negativamente dalla collettività in quanto nemico del decoro. La società non vuole i muri o le carrozze dei treni dipinti, e se proprio qualcuno deve dipingere che lo faccia su superfici regolate da un permesso, altrimenti troverà puntuale la repressione ad aspettarlo. Soltanto che poi questo genere di schema va in corto circuito, come nel caso di Bologna dove le istituzioni asportano pezzi di vecchi muri illegali di un artista riconosciuto come Blu per una mostra sulla street art, proprio mentre l’artista stesso, come risposta a questa iniziativa che non condivide, decide di cancellare le opere/tracce che aveva precedentemente lasciato in città. Se questo episodio sfiora il ridicolo pensiamo anche a tutte quelle mostre monografiche “in contumacia” che girano su artisti che non avevano la minima intenzione di esporre le proprie creazioni in musei e gallerie. Il riferimento a Banksy non è casuale e su questo tema varrebbe la pena anche citare una provocazione ben riuscita dello stesso che vendette le sue opere in forma completamente anonima su una bancarella per pochi spicci. Tutto questo alla faccia del mercato dell’arte.
Negli ultimi decenni siamo stati abituati a guardare alla strada, come ad una grande tela a cielo aperto. Sempre più si sono susseguiti festival ed opere di riqualifica urbana nella maggior parte dei nostri quartieri e delle nostre periferie. In questo contesto, dove la strada sembra accogliere l’espressione democratica dei suoi abitanti o visitatori, abbiamo assistito all’arresto del writer Geco. L’evento giustificato in nome del decoro, ha suscitato non pochi interrogativi. Attualmente la legislazione italiana riconosce due tipi di reato generalmente imputabili a writer e street artist: reato di imbrattamento e reato di danneggiamento. È davvero contradditorio notare come il comune denuncia spesso questi artisti ma altrettanto spesso li chiama per riqualificare aree della città.
Possiamo parlare davvero della strada come uno spazio libero quando sono le stesse istituzioni a scegliere chi può e chi non può esprimersi per strada? Credo tu abbia toccato la contraddizione più grossa della questione: da un lato tutto il fenomeno writing/street art ti affascina perché si consuma in maniera del tutto spontanea (ed illegale), ed in quello trova la sua unicità rispetto ad altri movimenti artistici o fenomeni di comunicazione, e quindi a conti fatti il suo valore, dall’altro è come se qualcuno dicesse che invece non va assolutamente bene se non quando viene recuperato alle condizioni dettate da società e mercato. E allora aveva ragione qualcuno che diceva che se non fai i bombing, i treni e le pezzate illegali sei solo un decoratore che invece di fare greche o trompe l’oeil usa semplicemente un altro tipo di linguaggio. Quindi a voler fare una provocazione la strada è necessariamente democratica perché le tracce che trovi sul tessuto urbano si sono formate attraverso gesti spontanei, riappropriazione di spazi (proviamo anche a ragionare su come all’inizio se volevi vedere i graffiti in Italia spesso dovevi varcare i muri degli spazi occupati, oppure guardarne le pareti esterne…), e prevede una sua autoregolamentazione che è basata su codici condivisi, mutuo rispetto e da un certo punto di vista buonsenso (se ci sono 4 muri li riempio tutti, non è che vengo a coprire il pezzo che hai fatto tu, tanto quanto il rispetto implicito per monumenti e beni architettonici). Proseguendo con la provocazione potremmo sostenere che chi dipinge rappresenta una democrazia dal basso” quasi un’autogestione degli spazi secondo le proprie diverse esigenze. Tutto questo però si scontra in maniera profonda con quell’idea di decoro come valore in sé che si è sviluppata progressivamente nelle nostre città. E così da una parte ti ritrovi con il famoso concetto di riqualificazione dei quartieri o meglio ancora delle periferie che coincide con i palazzi senza scritte e il writing o la street art dove decide l’amministrazione comunale, che per quanto mi riguarda mi ricorda molto l’area cani nel parchetto. Siamo tutti d’accordo che una volta che hai messo il tuo bel recinto a quel punto mancano solo i cagnolini dentro, e questi sono quelli che si vendono o svendono con furbizia. Dopodiché è innegabile che chi sceglie la via dell’incompatibilità con le istituzioni, e sostanzialmente quindi decide di non vendere niente a nessuno, dipingendo illegalmente verrà ostracizzato dagli amministratori della città e dalle strutture proposte a reprimere il fenomeno (in alcuni casi squadre antigraffiti costituite ad hoc all’interno delle FdO). E se continuano ad esistere writer non addomesticabili c’è invece una parte di “artisti” sempre pronti a salire sul carrozzone più conveniente, come quelli che oltre alla varia produzione di gadget e tele sfrutta regolarmente l’impatto mediatico dei fatti di cronaca e costume recenti per realizzare un’opera che con rigorosa puntualità troverà visibilità sui giornali. Insomma da una parte gli irriducibili, dall’altra i paraculi e nello spazio che c’è in mezzo tutta la pletora di chi sceglie la strada del compromesso o di trasformare l’attività di writer/street artist nella propria attività lavorativa con le diverse sfumature del caso.
Un altro fenomeno particolare che possiamo notare è la contrapposizione tra crew e singolo street artist che lavora quasi per stesso.
Vero! Qui cogli perfettamente il punto… e se vogliamo dare delle risposte alle ragioni di questa diversità, le troveremo nella differenza tra una riappropriazione di spazi urbani e la vendita di un prodotto. Se devo aggredire e conquistare una linea ferroviaria, un lungolinea o i muri della città sarà più semplice e bello farlo insieme ai tuoi compagni di crew. Innanzitutto perché è più divertente, perché ti permette di realizzare pezzi più grandi, più rischiosi e più ambiziosi, e perché l’unione fa la forza. Questo finisce per essere un tipo di relazione diversa da quelli che invece sono i rapporti tra gli street artists, che possono essere di complicità, amicizia e condivisione, ma non è un caso che la stragrande maggioranza di loro lavori da solo, in maniera autonoma, e sul prestigio dei propri lavori costruisca la sua carriera. Sarà quindi normale lavorare da soli, così anche da massimizzare gli introiti e i profitti per quanto riguarda le commissioni che uno si porta a casa. Questa è una descrizione un po’ tranchant, se andiamo a vedere bene ci sono anche tutto un altro tipo di situazioni anche tra gli street artists (vedi il documentario FAME, che ne è un esempio lampante o il sodalizio BLU con ERICAILCANE), ma è innegabile che parte di questo mondo sia un ambito che fa riferimento al mercato dell’arte, alle sue regole e ai suoi equilibri.
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