Torna a San Ginesio (MC) dal 18 al 25 agosto il Ginesio Fest, festival teatrale diretto da Leonardo Lidi, vicedirettore e coordinatore della Scuola per Attori del Teatro Stabile di Torino e regista associato del TST. Leonardo sarà su Prime dal 13 ottobre con Everybody Loves Diamonds, e su Sky con Dostoevskij dei fratelli D’Innocenzo.
Il tema scelto da Leonardo per il Ginesio Fest è la maschera.
E tra i borghi ricostruiti dopo il terremoto del 2016, chiacchieriamo con lui di maschere.
A cosa serve una maschera?
«Non lo so e per questo ho scelto di discuterne al Ginesio Fest. Non ho un’educazione che passa dalla maschera anzi, per me è quasi sempre nemica. Con i miei studenti lavoro per togliergliela, per educarli all’assenza di maschera. I festival sono parentesi estive, dove ci si incontra per dibattere e per fare riflessioni, e questo sulla maschera mi sembrava un tema interessante. Ormai dialoghiamo solo tra avatar, non più tra persone: ci stiamo disabituando a condividere le emozioni all’interno di uno spazio comune e questo porta a un abbrutimento della persona. Sui social ci concediamo delle volgarità dopo uno scambio di battute con un altro avatar, nascondendoci dietro maschere. Questo educa alla volgarità. In questo il teatro può ritrovare una funzione sociale e politica, aiutandoci a condividere le emozioni spazialmente, non nascondendoci dietro un avatar. Non è un caso che Facebook diventa Meta e ti illude che sei sempre tu ma con un’altra immagine. Questo mi spaventa. Ecco perché ho pensato di parlare di maschera: se abbiamo voglia di toglierla, se è un’esposizione o una protezione, se veramente ci è utile».
Oscar Wilde diceva datemi una maschera e vi dirò la verità. La maschera e l’avatar ci nascondono o la maschera fa vedere quello che uno realmente è? Quella che noi consideriamo la maschera è Superman, mentre chi realmente maschera l’uomo dai super poteri è Clark Kent…
«Non lo so. Vedo che alcuni artisti necessitano di questo strumento per esternare dei concetti anche molto intimi. Questo per me è sia un insegnamento che un ossimoro. Io sarei per toglierla, ma poi vado a vedere spettacoli che attraverso la maschera mi emozionano. Quello che mi ha affascina è proprio il combattimento tra chi la pensa come Oscar Wilde e chi, come me, non crede che la maschera serva. E faccio fatica anche a dire che non ci credo, perché non ho nessuna certezza. E questo è ciò che mi stimola di più».
Dirigi la scuola dello Stabile di Torino e al Ginesio Fest sei con i tuoi ragazzi che stanno studiando con Filippo Timi. Le nuove generazioni sono davvero così impreparate come molti li raccontano?
«Spesso sono i registi, i direttori artistici che devono dettare la linea artistica. Al Teatro Stabile di Torino, quest’anno, avevo la possibilità di fare un testo contemporaneo. Potevo fare Crimp, invece ho scelto di far debuttare un ragazzo di 24 anni. Sono scelte politiche. C’è bisogno di una strategia per movimentare il teatro. Questo per me è fondamentale. Davanti ad alcune proposte spesso, da quindici anni, mi sento rispondere “si però devi renderti conto che…”. Ma perché io mi devo rendere conto? Il panorama italiano non è un panorama privo di talento, ma i giovani talentuosi vanno aiutati ad avere coraggio. Fondamentalmente quello che manca è il coraggio per la paura di perdere gli abbonati».
La carenza di drammaturgie di qualità viene dalla mancanza di formazione o
manca il coraggio di scrivere andando a fondo per paura di non essere
accettati?
«Secondo me ci sono più elementi. Ci sono tanti drammaturghi bravi, ma vanno trovati. Bisogna leggere tanto, creare classi di persone in grado di saper leggere e promuovere nuova drammaturgia. Io ho trovato un ragazzo di 24 anni che seguo da tre, ma mi faccio aiutare dalle giurie dei festival che mi segnalano talenti. Leggo tantissimi lavori e non me la sento di dire che il livello della drammaturgia contemporanea sia basso. Ci sono tanti eventi che ospitano le nuove generazioni. Ma finché non si crea un sistema, rimane una foglia di fico. Bisogna che siano i teatri nazionali a promuovere la nuova drammaturgia. Ecco perché, per me, promuovere un ventiquattrenne in uno teatro nazionale ha una valenza politica. Come il mio “Progetto Cechov”, che ho realizzato con lo Stabile dell’Umbria: una trilogia concentrata sulla forza di tredici attori. Non è un progetto per mettere in mostra le mie capacità, ma il processo di crescita dei ragazzi. Per me l’importante è mettere al centro l’attore e il testo. Il problema è che se tu inserisci i nuovi professionisti in un sistema basato sul precariato, con la paura di non riuscire, con stage per tutta la vita, generi degli artisti spaventati che non possono fare altro che cercare una promozione del maestro di turno. E questo non può creare nulla di buono. Posso solo creare delle fotocopie di qualcuno che cerca di imitare qualcun altro. Dobbiamo ritrovare originalità e voglia di esportabilità dei nostri testi. C’è un collegamento tra teatro e cinema, in cui io confido molto. La maggior parte degli sceneggiatori anglosassoni partono dal teatro. Da noi è molto difficile questo collegamento, sia per gli attori che per i drammaturghi e per i registi. Noi sfruttiamo gli artisti. E questa è una moda terribile. Abbiamo bisogno di numeri? Allora sfruttiamo un volto cinematografico o televisivo. Basta fare numeri. Io non ho nulla contro i volti: lavoro nel cinema e nella televisione, so quanto siano importanti. Ma noi dobbiamo far dialogare i vari luoghi, non sfruttarli. Voglio che i casting directors conoscano gli allievi usciti dalle scuole di teatro, che li formino. Non è possibile che in tv ci siano dei ragazzi che non sappiano parlare l’italiano perché privi di formazione, ma hanno un bel faccino. Mentre io formo per tre anni ragazzi che non lavoreranno per i quattro successivi. Questo è un controsenso, dovuto prima di tutto a un’incapacità del teatro di formare per il mercato, perché parlare di mercato, di carriera, di soldi, ci spaventa. È un limite anacronistico. Dobbiamo creare dei ponti. È nella scrittura che credo sia oggi il vero tema, e avere piattaforme come Sky, Netflix, Amazon ti fa sentire quanto siamo indietro rispetto agli altri Paesi. È un argomento che andrà affrontato in maniera seria, ma coinvolgendo nel dibattito le nuove generazioni, altrimenti continui con il fomentare un circolo chiuso».
L’Italia è il Paese delle maschere. Indossate, come Pulcinella e Arlecchino, fino a quelle di Macario, Fantozzi, per arrivare, ai Vanzina, Verdone e, oggi, ad Albanese. Dove sono le maschere oggi?
«Qui a San Ginesio ho invitato Francesco Mandelli, perché con Biggio, con i Soliti Idioti, per dieci anni sono stati la maschera comica italiana. Sono riusciti ad andare a Sanremo, dove non sono stati apprezzati, hanno fatto numeri incredibili al cinema. Villaggio è stato capace di raccontare attraverso una maschera, senza abbassare la qualità della sua scrittura. Questo modo di lavorare oggi è meno presente per quello che dicevamo prima sull’immediatezza. Da esaminatore, vedo i provini di molte scuole nazionali: ti rendi conto che davanti a una commissione di persone adulte, il ragazzo pensa che sia cool essere totalmente diretto, senza mediazioni e quindi ti fa vedere che sta nella sua cameretta, totalmente libero, senza sapere che già quella è una messa in scena. Un’altra cosa mi spaventa, per tornare alla maschera o all’assenza di essa, è la vendita del dolore. Vedo persone che, prima di tutto, mettono davanti il loro dolore. Questo crea qualcosa di pericoloso. Se tu, prima di fare un provino teatrale, mi devi commuovere con la tua storia, metti davanti al tuo possibile talento o alla tua possibile arte, la tua disgrazia. Questo è pericoloso e di questo dobbiamo ringraziare certa televisione, che prima di farti cantare ti chiede se hai ancora tutti e due genitori».
Lavori molto con le piattaforme, che possono insegnarci come fare programmazione digitalizzando le sale, usando lo stesso software che ti fa apparire la scritta “consigliato per te”. Barbie ci sta insegnando come si può portare la gente in sala creando l’evento. È la prova che si può riportare la gente in sala?
«Faccio cinema, ma come attore: conosco meglio i meccanismi dietro al teatro. C’è però da dire una cosa. Barbie è scritto da Greta Gerwig e Noah Baumbach, tra i più grandi scrittori di cinema, che vengono dal teatro. Non possiamo pensare di fare cinema senza la scrittura. In questo gli americani hanno da insegnarci quello che a suo tempo hanno imparato da noi. Scorsese, in un’intervista dove parla di cinema, racconta come ha imparato a fare regia grazie al cinema italiano, attraverso la scrittura delle immagini. E Barbie in questo ha le idee molto chiare, visto che lo sceneggiatore è Baumbach, uno dei miei scrittori di cinema preferiti, in grado di fare un prodotto popolare senza abbassare il livello della scrittura».
Il tuo rapporto con l’AI?
«Nullo. Non la utilizzo. Capisco lo spauracchio generale, ma può essere anche questo uno stimolo per riportare al centro il nostro talento, la nostra capacità di scrittura. Se per un creativo può essere un nemico, allora è bene conoscerla per combattere il nemico».
È vero che il problema sono sceneggiature e drammaturgia, ma l’Italia rischia di diventare solo centro di produzione. Non è Netflix o Rai che producono, ma società come Freemantle, Palomar, Luxe Vide, che ormai sono state acquisite. C’è spazio per la nostra sceneggiatura? Sceneggiatori statunitensi fanno prodotti di qualità, ma con i loro standard. Noi rischiamo di perdere il nostro patrimonio? Tutto questo in un contesto dove il mondo asiatico sta crescendo in maniera esponenziale con prodotti di qualità…
«Quello dell’Asia è un punto importante. C’è una crisi, ma se tu emergi ti danno spazio. All’inizio per me non c’era spazio in teatro, perché ero un giovanissimo che voleva fare i classici. Ma se tu diventi un dato di fatto, che è quello che chiedo ai miei allievi, lo spazio ti verrà dato. Il cinema asiatico è diventato un dato di fatto che abbiamo provato ad ignorare per alcuni anni. Poi hanno vinto gli Oscar. Devi essere, soprattutto nei momenti di crisi, talmente forte e coraggioso, in grado di palesarti in maniera talmente alta, che nessuno ti potrà dire che non c’è spazio per te. Bisogna approfittare delle crisi per palesarsi. Questo è il momento in cui la nostra scrittura deve palesarsi con forza».
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