Sono trascorsi poco più di giorni da quando, con un comunicato ufficiale, il Nuovo Teatro Sanità, a Napoli, ha annunciato la chiusura definitiva dell’attività teatrale. In questo tempo la voce ha girato e rimbalzando un po’ dappertutto, l’obbrobrio ha fatto notizia. Lo sconcerto è passato di bocca in bocca. Ma a che punto siamo adesso?
Pausa. Lunga pausa. Lunghissima, estenuante, irritante pausa di riflessione.
La verità è che non c’è modo di scorgere un punto solo nella questione. Il punto si è dissipato, si è perso nella valanga di cordoglio e rassegnazione che accompagna la notizia di una fine. Ma se pure non parlassimo in termini di lutto, se si riuscisse ad affrontare la cosa con la lucidità che serve, resterebbe impossibile trovare il centro del problema. I punti sono molteplici, si intrecciano tra loro e ciascuno oscura l’altro secondo una meccanica che è tutta di questo mondo.
Accade che le opinioni su una cosa soffochino la cosa stessa, la seppelliscano, la rendano dimenticabile, finché di quella cosa – che trovavamo inaccettabile e contro cui avremmo lanciato valanghe di rabbia – non resta che il senso comune, una retorica vaga, tiepida, una forma di dissenso gentile che, dopo tutto, è quasi piacevole. Questo accade. Sempre. Ma proviamo a guardare in faccia, almeno qualcuno di questi punti.
Primo. C’è la necessità di operare in un quartiere specifico, la Sanità, che rispecchia la visione di un intero collettivo, nato e cresciuto in quel cosmo a nord del borgo dei Vergini e legato a quello spazio non da una pretesa appartenenza di nascita, quanto dalla volontà di agire su quell’ambiente, di cambiarne la rotta, se possibile, in un senso migliore. Su questo punto la risposta delle istituzioni è irritante: un paternalistico modo di assecondare i buoni propositi e di impedirli allo stesso tempo, quando si fanno più concreti, permettendo l’aggregazione di giovani in uno spazio divenuto a tutti gli effetti un’alternativa concreta a derive di altro tipo, ma ostacolandone sistematicamente l’effettivo consolidarsi nella forma di un “teatro”. Lasciar fare finché è possibile, assecondare la direzione del collettivo e le sue iniziative come espressione di uno spirito giovanile, di un ardore adolescenziale che più tardi si sarebbe placato e avrebbe imparato a fare i conti con la realtà.
Secondo. Lo stabile. La chiesa. L’atroce dilemma. Come rendere possibile l’autodeterminazione di un gruppo che opera all’interno di una struttura settecentesca, di proprietà del Comune di Napoli ma nella disponibilità nientemeno che della Curia? Il grande problema. Ma forse la domanda è posta male, forse il quesito appare più incisivo al contrario: quali e quanti modi un’istituzione conosce e può attuare per impedire il riconoscimento di un gruppo di individui?
Uno dei metodi è lasciare sempre una riserva. Creare una forma decennale di dipendenza. Dare l’idea di una concessione, come in effetti è stato, di un regalo, di una speciale forma di generosità.
È chiaro allora che, all’interno di questa prospettiva paternalista, ogni iniziativa appare infantile. L’entusiasmo con cui ogni anno si è aperta la stagione, l’aria informale che si respirava in quelle occasioni, resa possibile, a quanto pare, dall’idea diffusa che si stava giocando e che nel duro lavoro di un’intera squadra non c’era niente di serio. Un gioco a intrecciare legami coi teatri in giro per il mondo. Un gioco a portare lo spettacolo dal vivo nei piccoli cubicoli senz’aria, dentro i bassi esposti alla strada. Un gioco a formare nuovi registi e drammaturghi. Un gioco a perdere, comunque.
Quanto il sogno di una drammaturgia nuova, brillante, che riuscisse a esprimere “le piramidi arcaiche di teschi” e l’apocalisse ambientale dei giorni nostri, una scrittura che provvedesse, da sola, a questo profondo, disperato bisogno di rappresentazione. Che sia anch’esso infantile?!
Terzo. È straordinariamente semplice porre fine alle cose. Scoprire che ciò per cui si è lavorato negli anni, ha assunto i contorni astratti del sogno giovanile e che nulla di concreto si è mai costruito. Accettare di aver preso troppo seriamente un’avventura, di averci – come si dice – ricamato un po’ troppo sopra. Dirsi che è stato magnifico essere presente quando tutto è cominciato ma che adesso è ora di dire basta e passare, magari, ad altro. Molto facile.
Ma ancora più semplice è lasciare che gli eventi accadano, permettere a una cosa di perdere l’equilibrio, precipitare e disfarsi completamente. Sembra quasi un gesto gentile: lasciare che una cosa si esprima nella sua fine. Lasciare che si concluda perché così deve andare. Darle una spinta, magari, una bella, vigorosa spinta giù per il dirupo. Assistere al commiato. È questo che si è fatto fino a ora. È questo il punto.
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