Non sarà una pacifica riunione famigliare, quella che si prepara nella calura agostana di una tenuta di campagna in Oklahoma, casa di una famiglia matriarcale dagli affetti ruvidi, caratterizzata – lo scopriremo sempre più – da donne forti, e uomini deboli, quasi fantocci. “Agosto a Osage County” del drammaturgo americano Tracy Letts è l’oscura, ma esilarante, e profondamente commovente storia delle caparbie donne della famiglia Weston.
Tutte provate da un’esistenza che non è andata come doveva, la vita di ciascuna di loro ha preso direzioni diverse, ma un funesto avvenimento le riporta forzatamente a ritrovarsi ancora una volta nella casa in cui sono cresciute nel Midwest, attorno alla madre disturbata. Tra continui colpi di scena, i ricordi e i segreti che verranno a galla mineranno i rapporti di tutti i componenti – mariti, figli, nipoti, zii -, e il già fragile equilibrio delle protagoniste. Le tante verità per anni celate, sconvolgeranno certezze e apriranno gli scheletri nell’armadio di ciascuno. È un testo dove possiamo scorgervi apparentamenti con Cechov, Ibsen, Pirandello, e poi Tennessee Williams o Sam Shepard, e, ancor più lontano, l’antico conflitto degli Atridi. Ma in Letts, nella sua visione della famiglia, non c’è catarsi, né salvezza. Va dato merito a Filippo Dini, attore sempre più votato a talentuoso regista di ricercata qualità, l’aver realizzato – per il Teatro Stabile di Torino – la prima versione teatrale italiana di questa crudele e divertente saga valsa a Letts il Premio Pulitzer 2008, e nota anche per il successo internazionale, con cinque Tony Awards, della versione cinematografica diretta da John Wells nel 2013.
La vicenda famigliare di “Agosto a Osage County” ha inizio quando l’ex poeta alcolizzato Beverly, marito di Violet, anziana moglie malata di un tumore alla bocca e impasticcata di psicofarmaci, scompare improvvisamente senza lasciare alcuna traccia, e ritrovato giorni dopo morto suicida. Il punto di non ritorno la famiglia lo raggiunge durante il pranzo dopo il funerale. Artefice è la malata Violet, personalità magmatica, cinica, tenera e arguta, che esplode con violenza verbale, con parole sboccate e senza freni nello sbattere in faccia a ciascuno odio, rancori, frustrazioni represse. A farle, anche suo malgrado, da specchio è la figlia grande Barbara, non meno veemente e vendicativa, fino a che il gioco al massacro si conclude con la veloce partenza di tutti, lasciando in quella grande casa un senso di desolazione.
Rimangono solamente Violet e Johnna, la giovane silenziosa governante, chiamata “la straniera”: una nativa americana appartenente a quel popolo espropriato della propria cultura e della terra. A lei l’autore del dramma affida l’inizio e l’epilogo, forse a voler indicarci l’unica portatrice di speranza di un futuro migliore. A rendere impeccabile la tensione drammaturgica e il meccanismo scenico tragicomico elaborato dallo scavo di Filippo Dini, è il continuo, sottile o esplicito, sarcasmo che, fino all’ultima sconvolgente rivelazione, tiene testa nel dramma. Dini imprime un ritmo serrato e cinematografico alla messinscena grazie anche alla scenografia di pareti continuamente spostate a vista che modulano gli spazi domestici in profondità e in altezza, creando un ambiente quasi labirintico. Al centro una grande stanza semibuia, luogo della mente.
Pregno di dialoghi a raffica il testo offre una grandissima prova di tutti i suoi protagonisti tra i quali svetta l’interpretazione superba di Giuliana De Sio nel ruolo della perfida e fragile Violet, e di Manuela Mandracchia, la figlia Barbara. Gli altri, bravissimi per encomiabile coralità, sono Fabrizio Contri, Orietta Notari, Andrea Di Casa, Stefania Medri, Fulvio Pepe, Valeria Angelozzi, Edoardo Sorgente, Caterina Tieghi, Valentina Spaletta Tavella oltre allo stesso Dini.
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