Commedia relegata, ingiustamente, nel limbo del Goldoni minore, dove l’autore racconta il suo vizio di gioventù, “Il giuocatore” appartiene a quella sfida delle 16 commedie scritte dal grande veneziano nel 1750. Gli storici ritengono che inevitabilmente, per la gravosità dello sforzo, non ne sortirono tutti capolavori come per esempio “La bottega del caffè”. Ma qui, l’eccentricità rispetto al Goldoni maggiore è nel manifestarsi di umori nascosti dell’autore, nella costruzione del protagonista Florindo conformata a ciò che egli stesso era stato in gioventù: smodato amante del tavolo verde con emorragia di denaro, al punto da vendersi un anello donatogli dalla fidanzata.
La spirale vincere-perdere-rifarsi è una catena inesorabile nel giovane ricco protagonista sempre pronto a promettere di smettere di giocare, ma subito smentito dalla ricaduta nel vizio. La commedia studia gli atteggiamenti, le debolezze, le passioni, i compromessi e la vita tendenzialmente rovinosa, dissipatrice di Florindo, che cade nelle mani di giocatori disonesti disposti a fargli perdere tutto, anche l’onore, e anche l’amore di Rosaura, e qualunque amicizia. Solo l’intervento di Pantalone riuscirà a fornirgli una via d’uscita, a trarlo fuori dal crack debitorio, e a impedirgli di fare un matrimonio di convenienza con la vecchia e abbiente signora Gandolfa, donna di mondo in cerca di piaceri, sensibile al bel giovane spiantato.
Nelle mani della regista Marinella Anaclerio e della Compagnia del Sole, si dà ben ragione dell’attualità del testo. Da un lato infatti abbiamo il gioco, con la sua inconfondibile sindrome che lo accomuna a tutte le altre dipendenze, come droga e alcol, videogiochi e quant’altro: il gioco come indicatore di crescita del tasso di casualità, di precarietà, delle nostre esistenze oggi segnate dalla ludopatia. Dall’altro la fragilità umana che ne consegue spinge verso un mondo claustrofobico, teso a ignorare il più possibile il mondo esterno e le sue leggi (fisiche, etiche e giuridiche) nel vano tentativo di ipnotizzare il destino. E ancora, ambientando la vicenda negli anni ’50 (costumi d’epoca di Simona De Castro), la regista pone nel contratto di matrimonio con relativa dote e annessi – tradizione nel Settecento come nei ’50 e oltre -, un altro elemento motivazionale.
C’è poi il motivo musicale cantato in scena “The house of the rising sun”, celebre brano della band inglese The Animals, che, ambientata nella New Orleans di fine ‘800, veniva cantata in versione maschile e femminile, a raccontare questa piaga dolente parlando proprio della rovina di un giocatore d’azzardo. Dentro l’elegante scenografia (di Pino Pipoli) con funzionali pannelli mobili – pareti anche a forma di carte da gioco – che determinano diversi ambienti lungo la giornata che va dall’alba al tramonto (luci di Cristian Allegrini), l’impeccabile regia graffia il nostro presente, scuote con una comicità moderata perché giocata sulla realtà delle situazioni. Anaclerio rende tutto molto umano, tangibile, universale, accanito.
E lascia aperto il finale con la fulminante sequenza in cui, mentre lentamente si chiude il sipario, due dei personaggi ostentano le carte al ravveduto (?) Florindo che dal buio della scena avanza guardando indietro, in basso e in avanti mentre osserva le carte tentatrici. Supererà quella soglia fra dentro e fuori attratto ancora una volta, o si ritrarrà mantenendo fede alla promessa di non peccare più?
Ne esce uno spettacolo arguto e divertente, pieno di ritmo, bellissimo in quella dinamica tragicommedia che man mano emerge grazie all’ottimo lavoro di tutto il magnifico cast, ben caratterizzato nel cesello dei singoli personaggi, e di grande vitalità. Da citare tutti: Flavio Albanese, Stella Addario, Antonella Carone, Patrizia Labianca, Loris Leoci, Luigi Moretti, Dino Parrotta, Domenico Piscopo, e una menzione a parte per il protagonista principale: il Florindo intenso e nevrotico di Tony Marzolla, attraversato da una frenesia cinetica che è tutta mentale, è un dissoluto fragile e altezzoso, mai simpatico come Goldoni voleva, eppure reso affabile nella sua sindrome di dipendenza che lo ha reso più macchina che uomo, e che vorremmo fermare.
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