“Antonio e Cleopatra” di Shakespeare è soprattutto, per alcuni, una tragedia d’amore che intreccia la propria ineluttabilità con quella della Storia – su cui domina l’arrogante autorità di Roma -. L’ingombrante fattore di spiazzamento, nelle dinamiche relazionali della coppia scespiriana contaminata dal potere, è proprio l’amore. E quello nato tra loro è impregnato e distrutto dai comportamenti e dalle ragioni della politica. Vitalizzando a suo modo il noto testo classico con un intervento di destrutturazione, il regista Roberto Romei, insieme a Federico Bellini autore della drammaturgia di “Antonio e Cleopatra. Anche perdere il mondo” (produzione Teatro Metastasio di Prato), compie uno slittamento temporale alitando quel respiro della passione su due amanti qualsiasi di oggi la cui avventura si trova ad un punto morto.
Frammenti filmici del kolossal di Joseph L. Mankiewicz del 1963 con Richard Burton ed Elizabeth Taylor, proiettati sugli ampi tendaggi della scenografia, introducono la coppia nostrana in eleganti abiti, usciti da una festa. Lui vorrebbe rimanere solo, mentre lei, per risollevargli il morale, inscena per lui un ipotetico compleanno. Identificandosi in Antonio e Cleopatra, le parole che i due si dicono, si urlano, si sussurrano, rispecchiano quelle di Shakespeare, alle quali si aggiungono alcuni inserti del testo “All for love” di J. Dryden, in una mescolanza di parole più vicine ad un gergo quotidiano, e con accenni musicali di canzoni – Ma che freddo fa di Nada, e Senza fine di Paoli – per supportarle.
Isolati in una stanza con uno spazioso letto, un enorme specchio sbilenco a terra, e delle lampade sparse geometricamente, complice l’alcool sempre versato, i due danno il via alla loro storia – che si vorrebbe riverberata nel reale – con dichiarazioni d’amore, sfuriate, accuse e ritorsioni, tra continua attrazione e ripugnanza, ricordi, abbandoni e accensioni voluttuose, paure espresse e taciute.
La dinamica di questo controverso ménage, con inversione di ruoli e battute in terza persona, e con le loro immagini alternate in proiezione a quelle del film storico, assomiglia a una recita – balzano alla mente chiari riferimenti alla coppia di Chi ha paura di Virginia Woolf di Edward Albee -, un gioco da loro stessi concordato che non può finire se non con l’inevitabile separazione priva di rimpianti, consapevoli della bellezza della loro scelta. E chiudere dicendosi: «È stato bello essere Antonio e Cleopatra. Giochiamo ancora?».
Ma lo sono veramente, o sono una semplice coppia di amanti in crisi, o di attori che giocano a recitare con dei materiali verbali? In quale direzione va lo spettacolo e che storia si vuole veramente raccontare? Sorgono queste e altre domande assistendo ad una messinscena registicamente confusa alla quale manca un’idea forte che possa suscitare una riflessione sul testo e sulla necessità di trasporlo a teatro. L’unica cosa che capiamo sono due amanti che stanno litigando. E allora, perché scomodare Shakespeare? Alla fine restano lì, un uomo sul letto, la donna alla porta, vogliono uscire, ritornano, si dicono “ci amiamo”, e così via. Anche gli altri elementi messi in campo – video, scene, costumi, luci, musiche -, tendono ad essere in conflitto fra di loro, senza armonizzarsi intorno ad una visione estetica e registica chiara.
Che dire degli attori? Si avverte il loro smarrimento nel plasmarsi tra le righe di materiali testuali discontinui, e la fatica a conferire una qualche verità. Pur con la grande generosità dei due interpreti, Paolo Briguglia e Alice Spisa, instancabili nel riempire la scena, nel sostenersi l’un l’altro per conferire spessore e sostanza alla loro relazione, per rendere quella verità dei due amanti che per quantificare il loro amore abbisognano «di un cielo nuovo e di una terra nuova», ci sfugge infine il senso di una tale operazione drammaturgica. Della coppia che si è amata fino alla reciproca distruzione, ci sfugge la comprensione di «un’ultima festa decadente e sfrenata d’addio al mondo – come scrive il regista – per non doversi adattare alle sue regole e ‘normalizzarsi’». Sentimento e ragione, femminile e maschile, politica e sesso, guerra e amore, tragedia e commedia, non trovano la giusta complementarità o simbiosi in questo inventario di dicotomie.
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