Non può non far venire in mente “L’angelo Sterminatore”, film di Luis Buñuel in cui la vicenda di un gruppo dell’alta borghesia convenuto per una cena e costretto in un salotto, non riesce a uscire da se stesso e dai propri stanchi riti, ritrovandosi, quasi fosse il giorno dell’Apocalisse, a piangere sul loro destino. L’ambientazione di “Imagine” del quasi ottantenne regista polacco Krystian Lupa, assomiglia a una veglia funebre infestata di fantasmi nel grande salotto ingombro di poltrone, divani, armadi, un letto e una libreria, dove sono convenuti un gruppo di amici, ex hippie e intellettuali, chiamati da uno di loro per “sradicare le erbacce, smascherare i crimini, e chiudere i conti”.
Con che cosa? Con un passato di ideali traditi, di utopie non avverate, di idee morte: quelle della generazione anni Sessanta e Ottanta, tra movimento hippie e New Age. I fantasmi che sembrano aleggiare nell’aria riportati sulla bocca di tutta la community di ex, sono alcune figure rappresentative dell’America di quella controcultura che anche in Europa determinò un’epoca: Allen Ginsberg, Janis Joplin, Jack Kerouac, Susan Sontag, Timothy Leary, Patti Smith, Yoko Ono e John Lennon, solo per fare alcuni nomi. All’ex Beatles e alla sua celebre canzone “Imagine” s’ispira nel titolo lo spettacolo creato da Lupa insieme ai suoi attori (prima nazionale al Teatro Storchi di Modena, nell’ambito del Vie Festival di ERT-Emilia Romagna Teatro).
Quel testo, con le sue promesse di un mondo migliore, non violento, di pace amore e fratellanza – e la morte del cantante, assassinato nel 1980 da un giovane che lo riteneva colpevole di aver rinnegato i suoi ideali, che pose fine a tutte quelle utopie – rappresentava le aspirazioni e gli ideali anche di Lupa, artefice anch’egli di una comunità di idealisti pacifisti che ricordava la Factory di Andy Wharol o l’Atelier di Antonin Artaud. Ed è a quest’ultimo che rimanda, dichiaratamente, la figura principale della messinscena, un personaggio malato e debole di nome Antonin, assurto a guida della rentrée del gruppo, col suo allestire una sorta di artaudiano “teatro della crudeltà” per la resa dei conti. Resa che inizia con la sua domanda accusatoria: “Che cosa avete combinato?”. “L’orgoglio e la droga ci hanno sopraffatto”, dirà uno dei personaggi.
È solo la prima di un profluvio di frasi e riflessioni filosofiche e astratte dove tutti sono chiamati in causa a rispondere, a dire la loro, ad accusarsi, recriminare, vagheggiare ancora, ammettere le sconfitte, la depressione conseguente, i fallimenti esistenziali individuali e sociali, ma anche – ed è, in ultimo, ciò che si domanda il regista confrontandosi col presente – chiedersi: “Siamo in grado di rispondere al perché quella fede nella trasformazione dell’umanità è morta? È possibile generare una seconda ondata spirituale della comunità umana senza fede nell’immortalità individuale?”.
Spostandosi pigramente o animatamente da una poltrona a un letto a una sedia, gli interpreti vengono seguiti da una telecamera a circuito chiuso che li rilancia su un grande schermo, a isolare di volta in volta i singoli in quella che sembra il consumarsi di una terapia di gruppo o una “seduta di autocoscienza”, con annesse materializzazioni di personaggi evocati: come lo stesso Lennon, o il suo doppio, che si presenta come un “nuovo Cristo” versione hippie, che tutti toccano e pregano, tanto da fargli dire: «Prendete il mio corpo e mangiatene tutti».
Questi e altri riti collettivi, denudamenti, balli, momenti di trance, somigliano al ricalcare le teorie del cambiamento rivoluzionario e l’esperienza della liberazione sessuale attuate dal Living Theatre nel leggendario spettacolo-happening “Paradise Now”, inno alla rivoluzione anarchica non violenta, in cui, auspicava la fondatrice Judith Malina, «Sia l’azione politica sia la gioia sensuale, porta al paradiso terrestre sognato».
Se la prima parte del lungo spettacolo “Imagine” (durata complessiva quasi 6 ore compreso intervallo, e con la fatica di seguire i fitti e impegnativi dialoghi filosofeggianti tradotti su uno schermo in alto) si svolge sempre nell’interno della casa, la seconda parte si apre a più luoghi schiusi, immaginati grazie a delle scene cinematografiche che legano il fuori con l’azione sul palcoscenico. Sgombrata dei mobili, la scena vuota è movimentata da un eccesso di situazioni, pensieri sparsi e divagazioni frutto di allucinazioni (i corpi nudi a terra lievitano sullo schermo), con Antonin che occuperà tutto il secondo atto in un lunghissimo monologo visionario di riflessioni disordinate sull’umanità in tempo di guerra e di crisi dei profughi, sull’umiliazione dell’uomo e sulla domanda senza risposta: “Come salvare la dignità umana?”.
Sullo sfondo di paesaggi inanimati, post apocalittici, e senza identità, l’Antonin giovane ridotto a barbone, profugo di una terra desolata, e in preda a incubi, lotta con la sua solitudine e i suoi vaneggiamenti, mentre la mente s’affolla di figure realistiche o di un altro universo: come i marziani scesi da una navicella a forma di locusta, venuti in soccorso per una richiesta di aiuto da parte dell’uomo che chiede il significato di alcune parole tradotte nei loro codici, poi viene portato via dagli alieni e riconsegnato trasformato in donna. Entrano figure velate comparse da un bozzolo, un gruppo di attiviste con le loro rivendicazioni, una coppia in costumi clowneschi e Napoleone, fino a risalire, riavvolgendo il nastro della storia, ad uno squilibrato uomo delle caverne e alle sue deliranti profezie. Lupa innesta tutto – e non poteva essere diversamente – nel nostro bruciante presente, con dialoghi, citazioni e rimandi, anche per immagini filmiche, che dal passato arrivano all’attualità della guerra in Ucraina, alla pandemia, alle rivolte in Iran e quant’altro.
Dallo spettacolo si esce spossati, frastornati, spesso annoiati, sia per l’eccessiva durata, sia per il troppo e confuso materiale testuale, tematico e visivo messo in campo, specie nell’ultima parte, che appesantendo la visione, non aiuta a trarre serie riflessioni. Una battaglia di resistenza per lo spettatore.
Lo spettacolo è realizzato all’interno del Progetto internazionale “Prospero Exstended Theatre”, grazie al supporto del programma “Europa Creativa” dell’Unione Europea.
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