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Con Bérénice Romeo Castellucci porta in scena la crisi del linguaggio
Teatro
Opera secentesca di Jean Racine, Bérénice scava nell’animo umano mettendo in luce il contrasto fra sentimenti e doveri. Figura tragica di solitudine, di abbandono, di amore malato, negato, Bérénice paga lo scotto della ragion di Stato. L’infelice storia d’amore fra la regina della Palestina e Tito, futuro imperatore romano, successore del padre Vespasiano, raccontata dal drammaturgo francese, attinge, come in altre sue opere, allo spirito della tragedia greca. In Bérénice, Racine contrappone le ragioni del cuore a quelle della politica – alla fine amaramente trionfanti -, e complica il dramma dei due protagonisti con l’inserimento di un terzo personaggio, Antioco, amante appassionato e disperato.
Accanto a questa storia di amori impossibili c’è in filigrana la storia di un’altra maturazione, quella di Tito, non più giovane principe padrone delle proprie azioni, ma imperatore obbligato a sacrificare i propri sentimenti ai doveri superiori inerenti alla propria carica, perché le leggi di Roma non consentono di sposare una straniera. E lei accetta, non senza sofferenza, la separazione dall’amato. La sua virtù sta nella forza interiore che le consente di superare l’abbandono e di vivere un’eterna solitudine. Il tono dell’opera, dove non c’è azione, è più elegiaco che tragico.

Nelle mani del regista Romeo Castellucci, ideatore da sempre di un teatro totale senza confini di forme e linguaggi, la riduzione del testo da lui operata si materializza in continue epifanie estetiche, enigmatiche, potenti, attorno all’unica protagonista, l’attrice icona del cinema e del teatro Isabelle Huppert, artefice dell’intenso monologo a lei affidato, personaggio che assimila in sé anche le voci sofferenti di Tito, Antioco, Fenicia – la confidente di Berenice -, rendendoli presenti col suo sapiente modulare voce e gesti nell’etere.

Per Castellucci, Bérénice (in scena al Teatro Mercadante di Napoli) rappresenta la crisi del linguaggio, il fallimento della comunicazione. Dentro un’atmosfera nebbiosa la proiezione, sullo sfondo del palcoscenico, di un lungo elenco delle percentuali degli elementi chimici che compongono il corpo umano, precedono l’ingresso di Berenice sulla scena chiusa da pannelli velati. Quelle quinte drappeggiate e scure che accolgono la lenta apparizione dell’attrice avvolta in un lungo abito, accentuano lo spazio della mente che la imprigionano.

Si aprono via via immagini, simboli, riverberi ed evocazioni suscitate dalle parole, dai pensieri, dai sussulti, dall’urlo, dalla malinconia, dalla disperazione, dal bisogno d’amore della donna, alle quali la visionarietà di Castellucci dà forma e consistenza. Oggetti, tanti, che si vuole caricare di senso (non importa se alcuni indecifrabili, è il climax che conta), a partire dalla piccola scultura di un gatto nero egizio in proscenico percosso a tempo da un martelletto; di un termosifone, simulacro dell’imperatore, da abbracciare per scaldare il cuore affranto; di una lavatrice dal cui oblò la protagonista tirerà fuori un lungo drappo bianco accarezzato poi mostrato sporco di sangue, segno di un dolore interiore più che fisico; di due nastri, uno rosso e uno blu, che si srotolano e riarrotolano più volte dalla graticcia, come due vene arteriose dove scorre il sangue per i due amori.

Tito ed Antioco si materializzeranno come fantasmi nei due attori Cheikh Kébé e Giovanni Manzo, un corpo nero e uno bianco, complici e rivali, entrambi muti, efebici, rinsecchiti, privati di quella parola negata ma espressa solo con i movimenti di una suggestiva danza di braccia, assumendo gesti e posture da fermi. Altre apparizioni da dietro il sipario ovattato, animeranno la scena: le ombre dei senatori romani dalle vesti bianche e strisce rosse, in una camera di specchi; poi di un gruppo di uomini seminudi intenti in una coralità gestuale sollevando, anche, una croce greca sulle spalle, che interpretiamo come simbolo della “passione” dei tre protagonisti.

Tutto è plasmato da un tessuto sonoro metallico, pulsante, violento, amniotico, creato dal fedele compositore di Castellucci Scott Gibbons -, risonanze acustiche che si frantumano con la stessa parola infine implosa, balbettante, spezzettata, diventata afasica sulla bocca di Berenice. Nel crollo finale, inginocchiata, la sua voce, rivolta a Tito, riesce solo a dire: «Non seguite i miei passi. Per l’ultima volta, addio Signore». E poi, rivolgendosi alla platea: «Ne me regardez pas!», non guardatemi! All’afasia della parola segue anche quella dello sguardo. Perché Berenice non si lascia scacciare da Roma, né si uccide per amore. Sceglie di andarsene, sottraendosi alla vista di tutti.

Dopo il debutto francese a Montpellier e la prima tappa italiana alla Triennale di Milano nel 2024, Bérénice è approdato al Teatro Mercadante, Teatro di Napoli –Teatro Nazionale, coproduttore dello spettacolo insieme ad altre istituzioni teatrali europee. Prossime tappe: TAP – Théâtre Auditorium de Poitiers, 14 e 15 marzo 2025; Stegi, Onassis Foundation, Atene, dal 26 al 30 marzo; Théâtre National de Bretagne, Rennes, 15 e 17 maggio.