Nato nel 1970 per volere del Presidente del Consiglio Georges Pompidou che incaricò il proprio Ministero della Cultura di progettare un evento multidisciplinare dislocato in tutta la metropoli parigina, il “Festival d’Automne di Parigi” è uno dei festival di teatro più longevi d’Europa.
Nell’ottica di creare una pratica collettiva che trova nell’unione tra socialità, svago e cultura il suo fattore vincente, il pubblico si sente parte di un cambiamento, individuale e collettivo, una ritualità di massa nella quale le barriere sociali si indeboliscono diventando meno evidenti.
Nel programma 2019, dal 10 settembre al 31 dicembre 2019, oltre alla concentrazione di nomi di prestigio della scena artistica contemporanea internazionale, colpisce la dislocazione degli eventi: il 90 per cento degli appuntamenti del festival, circa seicentoventi, si svolge tra la banlieue e l’Île-de-France. Una quarantina le location interessate, in un lungimirante e articolato piano di coinvolgimento delle periferie attraverso la cultura, che conta ogni anno 250 000 spettatori.
“La dispute” di Mohamed El Khatib
Non sorprende che tutti gli spettacoli siano già soldout a metà settembre, come nel caso de La Dispute, la nuova creazione di Mohamed El Khatib al Théâtre de la Ville de Paris – Espace Cardin. Il regista di origini marocchine, noto al pubblico per A Beautiful Ending, spettacolo di indelebile dolcezza sulla morte della madre, arrivato in Italia grazie a Centrale Fies nel 2016, mette in scena i litigi familiari facendo parlare le vere vittime delle turbolenze genitoriali. Partendo da un teatro basato sulla documentazione diretta, El Khatib ha incontrato e intervistato bambini e bambine di otto anni di varie origini per sondare come vivono il divorzio dei genitori.
Ancora una volta è il reale il protagonista nelle drammaturgie del regista, che non lascia spazio a finzione o ambiguità: in un palco ricoperto di mattoni di Lego, in cui tavoli sedie e perfino i genitori si montano e si smontano, sei bambini raccontano le proprie esperienze di figli di divorziati, mentre la documentazione ripresa con telecamera nei mesi precedenti, viene proiettata su un muro di mattoncini del palco. I Lego diventano quindi metafora simbolo dell’incapacità di costruire qualcosa di duraturo, di dare fondamenta salde in una società che mette al mondo figli costretti a compiere scelte emotive di cui non possono cogliere lo spessore. Alla domanda con chi preferisse stare dopo il divorzio dei genitori, se con il papà o con la mamma, il bambino interpellato ha risposto con l’elenco di quello che gli avrebbe fatto mangiare la mamma piuttosto che il babbo. Mentre un altro raccontava di come un suo compagno fosse stato affidato a terzi perché nessuno dei due genitori voleva occuparsene.
Le voci dei protagonisti diventano testimonianza di una problematica che troppo spesso viene subordinata al bisogno dell’adulto, incapace di ascoltare e di confrontarsi con chi subisce passivamente la scelta della separazione. Un problema ormai sociologico, e di classe, come sottolinea il regista in un incontro a fine spettacolo, che determina il comportamento sentimentale e sociale della nostra società futura.
“La vita nuova” di Romeo Castellucci
Presentato al Kanal-Centre Pompidou di Bruxelles, un anno fa, la nuova performance di Romeo Castellucci, La Vita Nuova, riempie con la sua potenza simbolica la Grande Halle de La Villette, centro culturale di 20mila metri quadrati inserito nel più ampio progetto del Parc de la Villette, che ha riconvertito tutto il quartiere da ex mattatoio e mercato generale nella periferia nord della città a polo culturale e scientifico.
In un luogo senza tempo, file di auto ricoperte da lenzuoli bianchi. Luci e sonorità industriali e metalliche riempiono lo spazio. Cinque imponenti e maestosi pastori neri vestiti di bianco guidano lo spettatore in una ritualità che agisce alla ricerca della artigianalità che dà il senso all’arte: ma la poetica di Castellucci non dà scampo e con con la crudezza delle parole di Claudia Castellucci ci ricorda che davanti alle scelte del mondo nessun artista, e nessun uomo, è libero. La percezione di libertà diventa un falso spiraglio, che spinge e confina l’artista alla mediocrità e alla fine all’accettazione del mondo: in un panorama di assoggettamento consumistico, la riproducibilità tecnica trasforma la natura umana in un mero automa del sistema, che asseconda il divenire senza soluzione.
I “Sentimenti noti” dai visi confusi di Christoph Marthaler
In un dialogo inconsapevole con il lavoro di Castellucci, e sempre alla Grande Halle, anche il regista svizzero Christoph Marthaler con Bekannte Gefühle, gemischte Gesichter (Sentimenti noti, visi confusi) cerca risposte al senso dell’arte e della morte partendo però dalla centralità dell’attore: l’inesorabilità del tempo e della creazione di senso che eleva l’essenza a opera. Anche qui siamo in un non luogo: un ospedale (psichiatrico), un albergo, un museo, poco importa alla varietà di specie umane che, come se fossero opere d’arte, vengono man mano fatti uscire da imballi di cellophane e casse di legno. Ogni personaggio ha una marcata individualità, con cui cerca l’accettazione del proprio io nell’appagamento del proprio desiderio e al tempo stesso nell’imposizione di quel desiderio agli altri. Da qui nasce un bisogno viscerale di creazione di comunità attraverso il dialogo con l’altro. Sentimenti noti si imprimono sui volti degli attori in un gioco di sguardi, dettagli e micro gestualità atemporali che racchiudono la semplicità del quotidiano e immortalano la bellezza e la profondità della vita umana.
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