Se guardiamo ad un settore culturale dal punto di vista produttivo, è possibile definire una serie di “componenti” che ne determinano l’esistenza, il funzionamento e, di conseguenza, il successo (o il flop).
Questa premessa è importante, perché ci consente di affrontare la questione della sedicente crisi del Teatro in modo più analitico e preciso, permettendoci di distinguere tra il “prodotto” e il “produttore”, tra il generale e il particolare. Soprattutto, ci permette di poter affermare che il Teatro non è affatto in crisi. Sostenere il contrario, semplicemente perché i teatri non sono pieni, equivale a sostenere che la Musica sia in crisi perché le persone non comprano CD.
Nell’uno come nell’altro caso, in crisi è solo una parte del complesso sistema di creazione di valore. Quando è terminato il “periodo d’oro” delle etichette discografiche, le persone non hanno smesso di andare ai concerti, né di ascoltare musica. Erano le major e non la Musica, ad essere in crisi.
Per il teatro, la questione non è molto differente. La domanda da porsi è: perché i teatri sono in crisi?
La risposta è semplice: perché chi gestisce i teatri non si è ancora accorto che il mondo è cambiato e gestisce la propria attività come quando “andare a teatro” era un rito collettivo, un momento della vita sociale di quasi tutti gli abitanti di un quartiere o di una città.
Quel mondo, non esiste più, si è completamente trasformato, ma pare che (quasi) nessuno se ne sia accorto. Il risultato è che le speranze di chi oggi gestisce i teatri sono aggrappate agli ultimi “abbonati” sopravvissuti, che hanno un’età media sempre più alta, che vogliono la propria “poltrona” (sempre la stessa) e che pagano gli spettacoli per l’intera stagione, anche se poi ne saltano spesso anche più di uno.
È paradossale, e forse è anche crudele, ma fino a quando ci saranno “gli abbonati” i teatri si lasceranno scivolare verso un declino inevitabile. La presenza degli “abbonati” è, per chi gestisce i teatri, nient’altro che una “falsa speranza”: un’illusione che i “conti tornino” e nel frattempo, un “vincolo” fortissimo a qualsiasi forma di innovazione che potrebbe comportare la “perdita” di coloro che consentono di “arrivare a fine mese”.
Manca, ad oggi, una visione manageriale del teatro, che sappia definire un’offerta che sia in grado di essere d’appeal per specifici segmenti di pubblico, che sappia immaginare servizi a valore aggiunto che avvicinino differenti categorie di spettatori, che sappia “spogliare” il teatro di quell’aura intellettualoide e pesante che allontana molte persone che, altrimenti, a teatro andrebbero. Nel frattempo, i gestori di teatri hanno dato la colpa al teatro, alle persone ignoranti, al teatro che ha successo perché ha più fondi dal FUS, e via dicendo, ma non hanno mai pensato che il loro modo di interpretare l’industria teatrale fosse superato.
Il fatto che la “più grande rivoluzione” del settore negli ultimi anni sia stata portare a teatro i volti noti di cinema e Tv, è emblematico.
Per i gestori di teatri è il Teatro ad essere in “crisi”, non loro. Per questo hanno visto “nel prodotto” e non nella “gestione” il problema. Dopo l’effetto novità, tuttavia, questo espediente ha perso d’appeal: non sempre le “gag” di un comico “funzionano” a Teatro; non sempre un’attrice di serie TV riesce ad emozionare il pubblico. E anche quando questo accade, anche quando il pubblico ride, o si emoziona, è lo spettacolo, e non i teatri che lo ospitano, ad avere avuto successo. La risposta alla crisi dei teatri va cercata in un’altra direzione. Va cercata in un processo di rinnovamento dell’intera offerta.
Vanno avviati percorsi che consentano ai gestori di teatri di riuscire a superare le piccole invidie reciproche per realizzare un’offerta teatrale “territoriale” e non frammentata; vanno individuate soluzioni “ibride”, che permettano di vivere il teatro in modo diverso, associando il consumo teatrale ad altre fruizioni culturali; vanno sperimentate azioni di profilazione dei propri pubblici perché ogni gestore possa capire a quale target rivolgersi e modalità di creazione di cartelloni che permettano di raggiungere pubblici differenti senza “denaturarsi”.
Va ricercata, infine, in un esercizio di umiltà necessario ad ammettere i propri errori e sperimentare nuove soluzioni, reinventarsi, rinnovarsi. Le etichette discografiche, quando hanno conosciuto il loro momento di crisi, non hanno pensato che gli ascoltatori fossero degli ignoranti. Hanno cercato, sperimentato e creato forme nuove di distribuzione: dagli mp3 alle soluzioni in abbonamento online.
È importante che anche i gestori di teatri avviino percorsi di questo tipo. Perché quando gli “abbonati” finiranno, sarà ormai troppo tardi.
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