Un pranzo a Milano con Annamaria Ajmone (coreografa e danzatrice) e Sara Leghissa (performer e fondatrice del collettivo Strasse) per parlare di una creatura strana che è Nobodys Indiscipline. L’idea di portare questo progetto in Italia è di Sara che lo propone ad Annamaria dopo aver conosciuto Eleanor Bauer (coreografa di base in Svezia e iniziatrice della piattaforma Nobodys Business insieme a Ellen Söderhult e Alice Chauchat) e partecipato a degli incontri di Nobodys Dance. Mi raccontano che in preda a un disperato entusiasmo organizzano una prima edizione italiana. La struttura del formato originario, in cui si mantiene molto salda la citazione di origini e fonti delle pratiche, si modifica incontrando il contesto italiano, in cui la formazione di ciascun* è meno accademica e più ibrida, specificatamente connessa alla ricerca personale e alle diverse influenze artistiche. Fin dalla prima edizione di Milano, l’invito viene esteso ad artisti di diverse discipline, ribattezzando il formato Nobodys Indiscipline.
È un progetto che sfugge a ogni possibile definizione e che sguiscia proprio perché lavora tra le cose, si insinua nella struttura capitalista che abitiamo per scardinarla e proporre qualcosa di non spendibile. Non a caso nella mail che annuncia la prossima edizione di Nobodys, che si tiene a Milano dal oggi fino al 31 maggio, Sara e Annamaria fanno riferimento all’opacità di cui parla Glissant come la più vivace di garanzie di partecipazione e confluenza, per sottolineare la natura molteplice, irriducibile alla trasparenza e alla leggibilità, ma di cui si percepisce densità, difficoltà di narrazione, “incotenibilità” e “indirezionabilità” del progetto.
Per la prima volta hanno deciso di raccontare
Nobodys Indiscipline e insieme ci siamo divertite a smontarlo e rimontarlo attraverso alcune parole chiave.
Scambio
Sara Leghissa: «L’idea da cui nasce il progetto è quella di scambiarsi pratiche di lavoro. Per me lo scambio avviene su più livelli non è così letterale rispetto alla pratica. Si tratta di uno scambio di consapevolezza, responsabilità, fiducia reciproca e ascolto, rispetto a quando e come presentare se stessi e la propria pratica, in modo che la propria presenza supporti il gruppo».
Annamaria Ajmone: «Si può parlare di uno scambio di conoscenze. È una circostanza che ti mette in una posizione di problematica, ti mette a confronto con il tuo modo di approcciare qualcosa. Il punto di partenza è familiare, infatti chiediamo alle persone di arrivare preparate.
Si tratta di uno scambio su vari livelli, che parte dal personale, passa dalla trasmissione ma arriva alla rielaborazione completa, nella messa in discussione o nella riconferma di certi presupposti di partenza. La cosa più affascinante e più difficile è che può contemplare il fallimento. Poi c’è anche uno scambio personale ed emotivo che non è legato al proprio modo di rapportarsi col lavoro, ma anche al modo che si ha di rapportarsi con l’altro, quindi a quanto spazio dai all’altra persona e quanto sei portato a toglierti un po’ da te».
Pratica
S.L.: «Credo che la differenza tra pratica ed esercizio sia collegata alla responsabilità. Responsabilizzarsi rispetto a dove mi posiziono di fronte alla proposta di qualcuno e qual è la proposta che rivolgo ad altre individualità diverse dalla mia. Qualsiasi cosa può essere una pratica è l’approccio che la definisce tale, il mio modo di stare in una proposta è diverso nel momento in cui lo applico come esercizio o come pratica. Percepisco la pratica come più orizzontale rispetto a un esercizio».
A.A.: «Quando invitiamo delle persone nuove a partecipare, le domande sono sempre sul cosa proporre e come proporlo, ma alla fine l’aspetto più difficile è stare nella proposta dell’altro. Non si arriva mai preparati all’idea di come stare nelle altre proposte, c’è un atto di responsabilità immensa nel come si aderisce o come si decide di tirarsi fuori».
Capitalismo
S.L.: «Penso al fattore tempo, di come sia inserito in una struttura capitalista del vivere, come sia organizzato per un bisogno di produrre e di essere riconosciuti dentro all’ordine sociale. Mi viene da dire che Nobodys è anticapitalista nel senso che non prevede un prodotto finale e non sa come organizzare il proprio tempo e tenta ogni giorno, fallendo, di organizzarlo, consapevole che non riuscirà mai a farlo».
A.A.: «Nel piccolo Nobodys cerca di costruire uno spazio che non produce qualcosa di spendibile, ha un ritorno in termini di ricerca ma non si inserisce nel mercato. Un problema che si presenta sempre è la questione della perdita del tempo, come se vivessimo il nostro tempo in termini di produzione».
S:L: «Non significa, però, qualsiasi cosa in qualsiasi momento. Si tratta della ricerca di un altro modo di stare nel tempo, un modo che non conosciamo e che fa anche a noi una grande paura».
A.A.: «Nobodys è sostenuto dalle persone che lo ospitano. Molto spesso si tratta di luoghi pubblici o privati che hanno delle entrate e vivono secondo una logica di mercato, nel momento in cui decidono di ospitarlo, aprono uno spazio per accogliere un qualcosa che non entra in questa logica. Per me incontrarci, ad esempio, al Museo del Novecento e il giorno dopo andare al Conchetta, vuol dire rimettere anche gli spazi su un piano di orizzontalità, spostare le questioni. Riuscire ad abitare dei luoghi senza che questi debbano avere un ricavo è farli diventare luoghi della cultura aperti».
Invito
A.A: «C’è una cura nella costruzione dell’invito, nel costruire le possibilità perché questo sia possibile. Allo stesso tempo c’è una richiesta di assunzione di responsabilità da parte dell’invitato.
In Nobodys ci sono persone che tornano di edizione in edizione, se qualcuno non può, ha la facoltà di passare l’invito, si crea una rete di persone sconosciute che arrivano attraverso persone conosciute. Durante la settimana, poi, questi ruoli vengono completamente a cadere: si è tutti invitati e si è tutti padroni di casa. Negli anni ci siamo molto interrogate su come costruire questo invito, abbiamo iniziato a fare degli incontri per invitare le persone, per metterle a proprio agio, delineando un paesaggio possibile.
La cosa più bella di Nobodys è che non si arriva mai a una soluzione, questo è il quarto anno e la prima giornata, che poi è una giornata di presentazione, è sempre nodale. Nobodys è un tentativo che accade una volta all’anno ma che, in realtà, accade tutto l’anno e non solo per noi che ci occupiamo delle cose pratiche, ma anche per gli altri. Il pensiero continua e c’è una connessione, parliamo di Nobodys oltre Nobodys. Il vero valore si trova, effettivamente, al di là della settimana in cui accade. Il desiderio di tornare a partecipare è quello di riprovare, con una consapevolezza diversa data dal cambiamento che avviene durante l’anno».
S.L: «L’invito è una delle parti che ci piace di più. In generale è sempre bello fare un invito, per noi è una parte molto sentita. L’invito prepara l’incontro e spesso invitiamo persone che non conosciamo e che non si conoscono tra loro, la cura che mettiamo in come preparare le persone ad arrivare è finalizzata al momento dell’incontro.
Cerchiamo di fare una versione di Nobodys che sia il più possibile multidisciplinare, quindi anche nel racconto che facciamo includiamo questa attenzione rispetto all’accessibilità e all’inclusività delle pratiche, l’importanza sta nella possibilità di accedere.
Il piacere legato all’invito si lega anche alla città: stiamo invitando qualcuno a Milano, una città che conosciamo bene e in cui siamo cresciute, c’è un desiderio esplorativo rispetto ai diversi spazi che tocchiamo ogni giorno».
Nessuno
S.L.: «Nessuno è il nome che abbiamo dato alla festa di autofinanziamento di Nobodys. È legato al formato originario della piattaforma, che si basa sulla ricerca della maggiore orizzontalità possibile, dentro la distribuzione del potere. Questo deve bilanciarsi con il nostro prenderci cura dell’andamento delle giornate e con l’invito, che, in fondo, è un esercizio di potere, perché noi scegliamo chi invitare. È una continua ricerca e negoziazione tra l’orizzontalità, nessuno, e una tensione di scelta e determinazione di quello che andrà ad accadere».
A.A: «Nasce anche dal desiderio di invitare delle persone in un’altra forma rispetto all’invito di Nobodys. In Nobodys si osservano le persone e il loro stare dentro la pratica. Ci piaceva l’idea che Nessuno potesse essere uno spazio di libertà, in cui poter rielaborare e riformulare, ciascuno attraverso le il proprio desiderio, una proposta artistica, e quindi un formato spettacolare. Nessuno vuole essere un modo per ri-incontrarci, raccontare, visibilizzare, generare prossimità, contatto, relazione, attraverso l’arte performativa e le sue s/conosciute e im/possibili declinazioni. Infine, oltre a ricevere un contributo annuo da parte di Ariella Vidach/ Associazione AIEP, Nessuno è la forma di finanziamento e sostenibilità di Nobodys Indiscipline.
Pubblicazioni».
S.L.: «Un invito speciale che facciamo ogni volta che organizziamo Nobodys viene rivolto a una o più persone che si occupano di produrre una pubblicazione che vuole raccontare in modo libero quella settimana. Il nostro invito è quello di venire a seguire quella settimana e proporre una pratica che può poi essere finalizzata alla produzione della pubblicazione, che viene stampata e editata. Ad ora si sono occupati della pubblicazione, come MACAO, Maddalena Fragnito, Emanuele Braga, Camilla Pin, Luca Chiaudano, Marzia Dalfini, Ilenia Caleo, per la prima edizione di Nobodys Indiscipline Milano nel 2016; Leonardo Mazzi per l’edizione di Santarcangelo 2016; Paola Stella Minni per una giornata di Nobodys a Montpellier nel 2016; Marzia Dalfini per quella di Bruxelles nel 2016; Anna Magni per Nobodys Indiscipline Milano 2017; Kinkaleri per Nobody’s Body a Prato nel 2017 e Erica Preli per Nobodys Indiscipline, Milano 2018.”
Per noi la pubblicazione è molto preziosa, perché è il materiale che rimane rispetto all’effimero di quella settimana e che la racconta in maniera arbitraria e fuori dal nostro controllo».
Paola Granato