Categorie: Teatro

Dei troppo umani: Giovanni Franci porta a teatro la storia di Pietro ed Emanuela Orlandi

di - 18 Aprile 2024

«Un carosello papi, di santi, di monsignori, di eccellenze e di ruffiani. Una danza macabra di banchieri, di criminali, di mitomani, di rebus, di ricatti, di mezze verità. Ossimoro impossibile, perché la verità è una, tutta intera e indivisibile. Un affare di Chiesa, di Stato e di mafia. Una Chiesa che in quarant’anni ha sempre preferito non fare luce, uno Stato che ha fatto finta di non sentire e una mafia che, per vocazione, resta in silenzio. Un segreto inconfessabile extra omnes». Con queste parole un bravissimo Valerio Di Benedetto dà voce a una delle tante tragedie greche che da secoli e secoli si nascondono nei libri di storie vaticane. Quelle storie che parlano di uomini d’alto rango e di dèi, accomunati da una tragedia che scuote gli animi, che si ripete nel tempo divenendo archetipica. Una di quelle storie che si è provato a raccontare come gli stupri di Zeus, trasformati in favole e miti, in gruppi marmorei di ineguagliabile bellezza. Ma che andrebbero chiamati col loro nome: reati. O meglio: peccati. Uno spettacolo di denuncia, di resistenza. Una pièce che ipnotizza lo spettatore, lo trascina nelle sacre segrete, negli inferi, della Città-Stato più antica, piccola e potente al mondo.

Sarà in scena giovedì, 18 aprile, al Teatro di Villa Lazzaroni a Roma lo spettacolo Pietro Orlandi, Fratello, scritto e diretto da Giovanni Franci, con Valerio Di Benedetto. Una produzione Fondamenta Teatro e Teatri. A 40 anni dalla scomparsa di Emanuela Orlandi, suo fratello Pietro elabora con grande coraggio un bilancio doloroso, intimo e toccante della lunga battaglia da lui condotta, sempre in prima linea, alla ricerca della verità. Uno spettacolo che è il resoconto dell’incontro avvenuto tra il fratello di Emanuela e il regista.

Franci non è nuovo a questo tipo di drammaturgia: suoi L’Effetto che fa, tratto dal caso Varani, e Il caso Estermann. Un atto unico serrato, una “stand up tragedy” che affronta uno degli eventi più oscuri che hanno attraversato la storia del nostro Paese. Questo spettacolo – racconta Franci – è «Il resoconto di un incontro avvenuto tra me e Pietro Orlandi a dicembre di due anni fa. Ci siamo dati appuntamento in un bar “da quelle parti”, come mi ha scritto lui, ovvero a Borgo Pio, a due passi dalla sua casa natale. Appena l’ho visto entrare ho avuto una vertigine, ho pensato: quest’uomo sta cercando la verità sulla scomparsa di sua sorella da quando io sono nato. Questo spettacolo è il resoconto di una vertigine. È il racconto di Pietro, sedimentato nella mia memoria, rielaborato col tempo dalla mia coscienza, infine impastato con l’immaginazione».

Perché ti sei interessato a questo caso? E perché hai sentito l’urgenza di portarlo in teatro?

«Senza dubbio, è uno dei casi più bui e spaventosi che abbiano attraversato la storia del nostro Paese come una ferita, una ferita che a distanza di quarant’anni è ancora aperta e fa male. È un caso che vede coinvolti la Santa Sede, il terrorismo internazionale, i servizi segreti di mezzo mondo, la mafia, la criminalità organizzata e lo Stato Italiano. Ad inventarsela, una storia del genere, rischierebbe di sembrare assurda ed impossibile, eppure è tutto terribilmente vero. Poi c’è Pietro, un fratello, la cui vita è cambiata da un giorno all’altro, prendendo una direzione e uno scopo assolutamente inaspettati. Un uomo che da quarant’anni cerca la verità sulla scomparsa di sua sorella, ostinatamente e senza aver mai mostrato il minimo cedimento. E mettendoci nei suoi panni, capiremo che di motivi per cedere gliene sono stati offerti molti».

Quanto è stato difficile realizzare uno spettacolo così sfacciatamente onesto e coraggioso, con tanto di nomi e cognomi scritti sul palco?

«Credo che proprio l’onestà e il coraggio abbiano reso semplice la realizzazione di questo spettacolo. Non si possono cercare compromessi in questa storia, lo stesso Pietro non è mai sceso a compromessi ed io mi sono semplicemente messo nei suoi panni. È una storia terribilmente buia, ma Pietro è una luce fortissima; solo ascoltandolo è stato possibile fare chiarezza in questa storia che è sempre stata raccontata in maniera troppo confusa, perché nel corso del tempo, probabilmente, si è dato troppo spazio a voci che avevano l’unica intenzione di confondere ulteriormente le acque o di mettersi in mostra».

Pietro Orlandi: che idea hai di lui dopo averci lavorato insieme?

«Pietro è l’eroe del mio spettacolo. È senza dubbio un eroe contemporaneo. La sua storia è epica e tragica. Filosoficamente è il simbolo dell’uomo alla costante ricerca della verità, senza se e senza ma. Conservo un ricordo bellissimo dei nostri incontri, la sua disponibilità, la sua sincerità, la sua fermezza, la sua misura».

Perché la macchina del fango con lui non sembra aver funzionato?

«Perché si è basata su argomentazioni false, su insinuazioni e travisamenti. Pietro parla chiaro, ha sempre parlato chiaro. A questa chiarezza non si può rispondere con illazioni e menzogne, col solo scopo di confondere l’opinione pubblica; è un vecchio gioco che non funziona più».

Rispetto a uno Stato che ha alle spalle duemila anni di esperienza nella manipolazione mediatica, dossieraggio e depistaggio, non ti sei sentito microscopico? Pietro è mosso da legami familiari. Tu hai mai pensato: lascio stare, ma chi me l’ha fatto fare?

«Devo dire che in molti mi hanno detto: lascia stare, ma chi te lo fa fare…. Probabilmente, tutti questi avvertimenti e raccomandazioni hanno avuto l’unico esito di spingermi con maggiore slancio ad occuparmi di questa storia».

Il pubblico come ha reagito? Alla prima c’è stata grande commozione e partecipazione…

«La commozione e la partecipazione che c’è stata alla prima si è ripetuta tutte le sere successive, fino all’ultima replica. La risposta del pubblico a questo spettacolo è stata veramente calorosa ed emozionante».

Hai utilizzato solo il materiale che ti è arrivato da Pietro Orlandi o anche stavolta ti sei mosso come un moderno Sherlock Holmes?

«Mi piace questo paragone con Holmes, in un momento dello spettacolo cito una sua famosa massima, da Uno Studio in Rosso: “Quando hai escluso l’impossibile, quello che resta, per quanto improbabile, non può essere che la verità”. Diciamo che molto materiale, in particolare quello riguardante il Vaticano, la banca vaticana, il disastro finanziario del Banco Ambrosiano, i legami con le logge massoniche, con la criminalità organizzata, con lo Stato Italiano, la politica di Wojtyla… li avevo studiati per il mio precedente spettacolo “Il Caso Esterman”. Insomma, questa volta sono partito con una preparazione maggiore».

Ti sei autocensurato nella scrittura? 

«Mai, questa storia o la si racconta con estremo coraggio e chiarezza o è meglio lasciar perdere».

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