-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Nel 1961 Jan Kott pubblica il celebre “Shakespeare nostro contemporaneo”, rendendo solo palese ciò che da sempre girava nell’aria: la presenza del Bardo nel tempo è una costante del fare artistico e poetico. A cominciare dalla Scala (Macbeth), tre importanti nostri teatri ne hanno rinnovato tale costante in musica. Occupiamoci di due di questi.
Julius Caesar al Teatro dell’Opera di Roma
Il Teatro dell’Opera di Roma ha addirittura inaugurato la stagione con una novità, “Julius Caesar” di Giorgio Battistelli. Romano, 67 anni, fresco Leone d’oro 2022 alla carriera, con le sue oltre 30 creazioni di teatro musicale Battistelli era il nome giusto per il titolo giusto, voluto quattro anni fa dall’allora sovrintendente Carlo Fuortes. Fiducia ripagata da un autore che non temeva né il confronto con un soggetto ingombrante, né con il precedente haendeliano, con cui naturalmente condivide poco o nulla.
E il poco sta solo nel richiamo lontano a certa classicità d’impianto. Attenzione invece alla prossemica del ricorso all’inglese arcaico nel libretto di Ian Burton, artificio ideale per attivare un distanziamento che focalizza la fisionomia intellettuale del progetto, consentendo di concentrare l’interesse sulle architetture sonore, vocali, registiche e sceniche: suggestivi, vichianamente inquietanti gli scranni di velluto rosso di un Senato romano in guisa di Palazzo Madama, i senatori in borghese.
Battistelli-Burton-Carsen è trio ben oliato dai precedenti di un “Riccardo III” (ancora un titolo scespiriano) e, ancor prima, di un “Co2”, opera “ambientalista” data alla Scala per l’Expo 2015. Opera anche “Julius Caesar”, nel modo di condurre la narrazione, nella vocalità efficacemente declamatoria dei personaggi, dal ruolo del titolo (Clive Bayley) a Brutus (Eliot Madore), Cassius (Julian Hubbard) e Antony (Dominic Sedwick). Scura nei timbri delle voci: unico ruolo femminile quello di Calpurnia (Ruxandra Donose).
Nella sapiente scrittura strumentale: belle le introduzioni ai due atti. L’uso di un’orchestra di grandi dimensioni (le percussioni debordano nei palchi) e di un coro-popolo, sempre ben istruito da Roberto Gabbiani, dalle inflessioni emotivamente palpabili, vivono con l’azione e con ciò seducono l’ascoltatore. Daniele Gatti, felice di congedarsi dal Teatro dell’Opera con una prima assoluta inaugurale (non avveniva a Roma dai tempi di Mascagni) governava con passione e assoluto controllo una partitura complessa. Piace, infine, nel dettaglio, scoprire relazioni che la partitura attraverso gesti, richiami, persino citazioni rivelava con il dejà ecouté: Laideronnette dalla raveliana “Ma Mère l’Oye”, per esempio, o il ricorrente motivo iniziale del secondo atto dal verdiano “Don Carlos”, che, in tono melanconico, a sua volta rimanda a un analogo momento dall’Otello. Sempre Verdi. E Shakespeare.
L’Otello al San Carlo di Napoli
Eccoci allora al secondo titolo inaugurale. Battistelli dice che l’occhio di Brutus è lo stesso di Jago che guarda Otello. Interessante. Immagino il legame fra la produzione di “Julius Caesar” e quella di “Otello” che inaugurava al San Carlo di Napoli, visto il 14, ultima di sette recite.
Partiamo dalla musica. Lettura senza picchi ma molto nitida di Michele Mariotti (guarda caso prenderà il posto di Gatti a Roma), direttore nato in terra rossiniana e al suo primo podio per questo titolo, ma da tempo interprete verdiano consolidato. L’atteso Jonas Kaufmann, voce ricca di nuances dinamico-espressive, ottima dizione, era un Otello che vive la sua follia come solipsismo: efficace la scelta di lasciarlo alla fine oltre sipario, separato dal resto della scena a riflettere sulla propria terribile condizione di femminicida. Pieni voti con lode all’intensa Desdemona di Maria Agresta, artista ormai di riferimento in questo ruolo, Igor Golovatenko Jago vocalmente mai sopra le righe.
E veniamo all’allestimento. Si diceva delle immaginate analogie fra “Julius Caesar” e questo “Otello”, ma eran forti anche i contrasti. Se Robert Carsen concedeva alle scene (Boruzescu) e ai costumi (Carvalho) una sobria attualizzazione, Mario Martone (scene e costumi di Palli e De Francesco) trasporta la vicenda come su un tappeto volante dalla Venezia del Moro a un immaginario campo iracheno con tanto di Marines. Ci si chiede che bisogno c’era. Martone continua una sua ricerca sull’Otello, che nasce fin dagli esordi con Falso Movimento.
Non solo piace ma affascina, quando un tema, un testo, ti accompagnano lungo il cammino, ma ciò non toglie che l’attualizzazione mediorientale sia parsa pensata più che per “épater les bourgeois”, per soddisfare certe mode d’oggi che vedono la messa in scena tradizionale come fumo negli occhi. D’accordo sull’Otello bianco di Kaufmann (pare sancito che il Moro “coloured” non sia “politically correct”), si rammenta che la Desdemona originaria era adolescente. Ma fra la bimba di Memè Perlini e la torturatrice di Abu Ghraib (dacché, nonostante grado e ruolo medico con cui qui appare, questo è l’immaginario che sollecitava la divisa kaki indossata) ci sarà pure una via di mezzo.
Insomma, stona questa decontestualizzazione, laddove il libretto di Boito parla di “candida veste nuziale” che qui non esiste perché farebbe a pugni con la citata divisa; o lo scarto cronologico che, fra la pistola puntata da lei contro di lui e la spada che poco dopo lo stesso Otello tenta di afferrare per difendersi, non può esser giustificato dalla finzione scenica. A qualcuno piace, ad altri no, ma poco importa.
Vero è che questo tipo di superfetazione tende a distogliere l’attenzione dal capolavoro musicale. Sia chiaro: distogliere, non annullarlo, il capolavoro. E qui sta il punto: l’Otello verdiano appartiene all’olimpo delle creazioni che mai saranno scalfite da qualunque tipo di lettura, anche la più “scancarata” – visto che siamo a Napoli, ci può stare…Non è il caso di questa regia, che “scancarata” certo non è ma, impostate così le cose, il rischio è sempre dietro l’angolo.