Una messinscena esemplare, encomiabile, necessaria, quella di Lino Musella, attore e regista (e del Teatro di Napoli, produttore), per aver dato forma e compiutezza drammaturgica allo spettacolo Pinter party, titolo che racchiude tre brevi pièce di Harold Pinter dal taglio più dichiaratamente politico rispetto ad altre dell’autore inglese, e accomunate dal tipico clima elusivo e sospeso.
Ne Il bicchiere della staffa (1984) c’è l’ambiguo rapporto fra un carceriere e un carcerato, tra la ferocia dell’inquisitore che infligge una sofferenza e la dolente dignità dell’inquisito che la subisce; Il linguaggio della montagna (1988), tratta del crudele divieto di usare la propria lingua in un campo di internamento; Party time (1991) ci porta dentro un’allucinata festa di una élite politica che parla vacuamente eludendo la realtà di quello che si svolge all’esterno da dove arrivano gli echi di sparatorie e rastrellamenti. Nel primo il riferimento è ai desaparecidos; nel secondo si evoca la persecuzione dei curdi da parte del regime turco; nel terzo si allude alla politica imperialista degli Usa e della Gran Bretagna all’epoca di Blair.
Tutti drammi politici, alcuni riferiti a regimi dittatoriali imprecisati ma sulla base di una specifica esposizione delle torture fisiche e morali inflitte agli oppositori. Pinter, che per lungo tempo fu considerato estraneo ai problemi sociali del suo tempo, con Il bicchiere della staffa e, ancor prima con La stanza sul tema dell’odio razziale, la tematica di molti dei suoi testi diventa apertamente politica.
A emergere nei tre atti di Pinter party (al Teatro San Ferdinando), oltre al tema dell’oppressione politica, della minaccia e della tortura, c’è l’aspetto più profondamente teatrale: la falsificazione, nel rapporto dialogico, dell’identità dell’altro sino alla sua riduzione al silenzio ormai depredato d’ogni dominio sul discorso. La parola pronunciata dai personaggi pinteriani è un’arma, sia per offendere l’interlocutore, sia per difendersi, per parlare d’altro in modo da non rivelare i propri sentimenti e le proprie paure. Si tratta della volontà di non comunicare per legittima difesa. Altra caratteristica del teatro di Pinter sta nel fatto che il dialogo non procede con linearità, ma attraverso interruzioni, ripetizioni, cambi di argomento.
Filo rosso che lega le tre pièce tessute da Musella, è il discorso di Pinter, nel 2005 a Stoccolma, in occasione del premio Nobel per la Letteratura, parole dure e anche atto d’accusa alle potenze imperialiste, ai loro soprusi e alle violazioni perpetrate. Con alcuni frammenti di quelle parole messe in bocca a un personaggio – lo stesso Musella – in apertura di spettacolo e in altri due frangenti, si ha chiara l’operazione drammaturgica e i risvolti che assume nel rimandare, quasi con conseguenzialità, al nostro tempo ovunque nel mondo dove ancora vige la vittima e il carnefice, l’oppresso e l’oppressore, dove l’umano diventa disumano.
Elemento scenografico è una sorta di totem che troneggia al centro: un calapranzi, un montacarichi, simile ad un lungo ascensore, a indicare che siamo in uno scantinato, un bunker, un sotterraneo, luogo dove si tessono trame oscure da nascondere alla luce. Qui, con Il bicchiere della staffa ispirato dalle pratiche della dittatura argentina, s’inscena l’interrogatorio cui Nicolas, un funzionario governativo, sottopone in sequenza il sovversivo Victor (riferimento al poeta e regista cileno Victor Jara, torturato e ucciso ai tempi di Pinochet), la moglie Gila e il loro figlio Nicky (questi compaiono solo in un video proiettato in alto), incarcerati, e sottoposti evidentemente a torture e violenze. Il dramma è tagliente come una rasoiata nella sua lucidità e capacità di esprimere la sostanza del male, essendo tutto giocato sullo iato che si crea tra il linguaggio formalmente corretto e amichevole di Nicolas e ciò che sottintende.
Pièce composta di quattro brevissime scene, Il linguaggio della montagna riguarda la repressione del popolo curdo con la proibizione, da parte delle autorità turche verso alcune donne in visita a prigionieri politici, di parlare la loro lingua, altrimenti punite e date in pasto ai cani. Ai dialoghi sincopati si aggiungono alcuni filmati originali (del film maker e fotografo Matteo Delbò) che ritraggono delle soldatesse curde sul campo.
In Party time una grande giostra domina la scena animata via via da un mix esilarante e spaventoso dettato dall’entrata degli interpreti che Musella ha immaginato, mentre ballano e parlano, mascherati da supereroi americani – Spiderman, Batman, Wonderwoman, Capitain America, Catwoman, Superman -. La spietata ostentazione di status, che suggerisce un vuoto, è di un gruppo elitario della società che condivide vacue suggestioni, preoccupazioni, pregiudizi, ricordi, disinteressandosi di ciò che arriva dall’esterno: una minaccia sempre crescente che non comprendiamo mai del tutto, ma che irrompe strisciante minacciando la loro stessa esistenza.
Le conversazioni sono giustapposte a due misteri di fondo: chi è Jimmy di cui si parla a tratti, e cosa sta succedendo fuori? Durante tutta la commedia, sullo sfondo di tanto in tanto una porta si illumina e si apre con un cameriere che serve drink ed esce, unico accesso all’esterno dell’appartamento. Il finale vedrà tutti, carnefici e vittime, schierati in fila sul proscenio, e in coro pronunciare le ultime parole: “Il buio è nella mia bocca e lo succhio”.
Bravo tutto l’ensemble attoriale: Paolo Mazzarelli, Betti Pedrazzi, Totò Onnis, Eva Cambiale, Gennaro Di Biase, Dario Iubatti, Ivana Maione, Dalal Suleiman.
“PINTER PARTY – Il bicchiere della staffa, Il linguaggio della montagna, Party Time”, di Harold Pinter, regia Lino Musella, con Lino Musella, Paolo Mazzarelli, Betti Pedrazzi, Totò Onnis, Eva Cambiale, Gennaro Di Biase, Dario Iubatti, Ivana Maione, Dalal Suleiman, in video Matteo Bugno, scene Paola Castrignanò, costumi Aurora Damanti, musiche Luca Canciello, disegno luci Pietro Sperduti, video Matteo Delbò, coreografia Nyko Piscopo. Produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale.
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