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Ho paura torero, una storia d’amore impossibile al Piccolo Teatro di Milano
Teatro
La trama è presto detta. E il contesto storico ben preciso già in apertura di sipario, con la voce del presidente Salvador Allende nel suo ultimo comunicato alla Nazione prima di essere misteriosamente ucciso (nel 1973). Siamo a Santiago del Cile nella primavera del 1986, durante la feroce dittatura militare del generale Augusto Pinochet. Sotto l’apparente calma del terrore, ribolle il Fronte Patriottico Manuel Rodrìguez. Ne fa parte lo studente rivoluzionario Carlos che, per le sue riunioni clandestine, ha trovato accoglienza e un rifugio sicuro in casa della apparentemente inconsapevole “Fata dell’angolo”, un travestito non più giovane, passionale e amante del canto, che si innamora perdutamente del giovane. Una storia d’amore impossibile che s’innesta nella storia del Cile piegato dalla tirannia di Pinochet del quale viene fuori un ritratto sarcastico e grottesco della sua vita privata accanto alla moglie e first lady Doña Lucia che egli non sopporta, entrambi la personificazione della banalità del male, del bieco potere.
Si intrecciano amore e politica, coscienza sociale e sentimento, nel bellissimo romanzo Ho paura torero, dello scrittore, cronista, attivista e performer cileno Pedro Lemebel (scomparso nel 2015), che il regista Claudio Longhi, su invito dell’attore Lino Guanciale, anche dramaturg insieme a Alejandro Tantanian, ha trasposto per il palcoscenico, prima regia come direttore del Piccolo Teatro di Milano. Lemebel, strenuo difensore dei diritti di ogni essere umano, specie del mondo queer, che ha pagato a caro prezzo la sua omosessualità dichiarata e la sua critica al regime, lancia, in questo suo primo e unico romanzo, una satira sferzante attraverso un racconto d’amore meravigliosamente sovversivo.
La ricca scenografia (di Guia Buzzi) di manifesti d’epoca, di slogan politici sulla revolución e di colorati murales che ricoprono parti della scena e delle pareti del Teatro Grassi, oltre a casse di legno di varie dimensioni che dalla platea formano gradini fin sul palco, ci introduce in un interno domestico arredato di oggetti e mobilio vintage fortemente kitsch. A ricreare l’immaginario pop di un Sudamerica e altri luoghi esterni all’appartamento, che ambientano e modulano la vicenda, è anche una parete frontale di alluminio ondulato e una passerella in alto, che si aprono e chiudono come un otturatore fotografico. L’arredamento casalingo è completato da altre casse accumulate dallo studente-militante e dai suoi compagni – che vanno e vengono nella casa -, il cui interno, spacciato per libri, in realtà contiene armi destinate per l’attentato – poi fallito – a Pinochet.
Che non siano libri e che Carlos non sia un semplice studente, lo intuirà presto, ma senza manifestarlo, la generosa, “ingenua” Fata la quale, pur ponendo diverse domande senza però ricevere risposte, e non sapendo quasi nulla di lui, continuerà a tenerlo in casa per averlo accanto, innamorata e devota com’è del misterioso e affascinante giovane. Presto si consumeranno gli eventi terroristici nei quali la Fata verrà coinvolta a sua insaputa, poi consapevolmente implicata pur ignara delle conseguenze.
Nel frattempo si accrescerà il rapporto tra i due in questo duplice percorso di formazione sentimentale e politica, con il sogno e il disincanto di lei, la riconoscenza e la maturazione di lui (un credibile Francesco Centorame), nel contesto di un momento storico del Paese dove, tra voci, musiche e canzoni – quella che dà il titolo al romanzo -, tra filmati di proteste popolari e di repressioni, fotografie dei desaparecidos, echi di cronaca in diretta della Radio clandestina, si respira il clima e lo spirito di una generazione oppressa ma indignata, combattiva, resistente, votata alla speranza; e, parallelamente, di un mondo marginale, inespresso, ricco d’umanità, che vive di piccole felicità, consumando con leggerezza il dolore di emarginati.
Il paesaggio umano e la polifonia di voci di questo melò dalla prosa lirica e avvolgente, che si apre e si dipana sul palcoscenico fino a contagiarci nel coinvolgimento emotivo e degli eventi, è reso da una recitazione vivace e puntuale con i bravissimi attori – Michele Dell’Utri, Diana Manea, Daniele Cavone Felicioni, e Giulia Trivero – impegnati in più ruoli entrando e uscendo dai personaggi, descrivendo luoghi, pensieri e umori, narrando in prima e in terza persona, come a scrutarsi da fuori. Mancava, a Lino Guanciale, calarsi in un ruolo così sfaccettato e complesso come quello en travesti della Fata (a parte un siparietto in La resistibile ascesa di Arturo Ui di Brecht, regia di Longhi, dove, tipo Lili Marlène, cantava in calze a rete). Attore di razza qual è, elude la trappola della facile macchietta, restituendoci una creatura viscerale, delicata, sensibile e guerriera, dal cuore puro, colorando, tra le sue vestaglie luccicanti e tovaglie ricamate, una gamma di sentimenti mutevoli che sfumano dalla malinconica all’ironia, dallo struggimento alla fierezza, accennando fragilità, ferite, vitalità.
Volutamente macchiettistica è, invece, la caricatura che, della coppia dittatoriale, ne fanno Mario Pirrello e Arianna Scommegna, letteralmente esilaranti in più sequenze, colta nelle sue manie, o nelle fobie, come quella del Generale attanagliato dagli incubi da bambino traumatizzato, insonne per le premonizioni di tradimenti e assalti, e continuamente ridicolizzato, sgridato e assillato dalla consorte dalla irritante voce stridula.
Ho paura torero sarà ancora in scena al Teatro Grassi di Milano, fino all’11 febbraio. Da non perdere.