Euripide nostro contemporaneo? La domanda suona retorica, e comunque Valerio Binasco non ha dubbi sulla risposta, come dimostra in questo suo primo confronto con la tragedia classica mettendo in scena Ifigenia e Oreste (adattamento e traduzione insieme a Micol Jalla).
Opera della tarda maturità dell’autore, concepita a quasi 80 anni, Ifigenia grava su personaggi incostanti e incoerenti, sospesi tra umanità ed estremismo, tra cambiamenti psicologici e di tono, che li rendono precursori di figure della scena moderna e borghese (e antiborghese). E tale clima famigliare si respira nella versione che Binasco ha realizzato per il Teatro Stabile di Torino contestualizzandola dentro una scena spoglia e con il pubblico seduto su delle tribune frontali l’una all’altra, fisicamente vicino agli attori vestiti in abiti d’oggi. Il coinvolgimento nelle vicende della famiglia degli Atridi, è in tal modo maggiore e diretto, così disposti nella lunga arena orizzontale delle Fonderie Limone, spazio svuotato e restituito a una teatralità asciutta come lo è la puntuale regia di Binasco.
La storia si fa cronaca, i prototipi leggendari divengono personaggi quotidiani, che, nel corso della tragedia cambiano idea, entrando in contraddizione con se stessi. Scarnificando il testo e asciugate di ogni aspetto aulico le severe parole rimaste conservano ugualmente la potenza del chiaroscuro psicologico e l’inesauribile dinamica dei caratteri. Si pensi ad Agamennone che, dopo aver accettato di sacrificare sull’altare di Artemide la figlia Ifigenia per ottenere dalla dea lo sblocco dei venti per riprendere il viaggio della sua flotta verso Troia, si pente e cerca di evitare l’uccisione. Ma poi temendo le reazioni dell’esercito, si “allinea” di nuovo.
E così mutano atteggiamento anche Menelao, Achille, la stessa moglie Clitemnestra; per non parlare della protagonista che passa dal terrore della morte all’esaltazione adolescenziale e “romantica” della vittima volontaria. È proprio questa fluidità dei sentimenti, così strenuamente umana, così distante dalla monumentale fissità del teatro arcaico, a rendere moderno il testo.
Binasco ne fa, insieme all’Oreste – l’altra opera di Euripide che compone il dittico -, un percorso d’affondo nel dolore dei figli e nella solitudine della famiglia. Eliminato anche il coro e ogni espediente visivo – oggetti scenici solamente una scrivania iniziale, un pacco regalo con bicicletta per il piccolo Oreste, un secchio d’acqua per Achille, un’automobile bianca che entra silenziosa e dietro la quale si compie velocemente l’efferato sacrificio –, vibrano chiare le azioni e le parole.
Brevi scene staccate e intervallate da momenti di buio creano una netta scansione e una suspense, potenziata da entrate e uscite laterali da una porta rossa che si apre su una stanza anch’essa rossa, e da grandi tendaggi grigi dal lato opposto. Ed è tutta nei diversi toni della recitazione ora asciutta, ora gridata, sdegnosa, amara, spasmodica, con qualche punta sarcastica, che gli attori tessono le parole dell’inganno, dei ripensamenti, del dolore trattenuto o furente, delle invettive, dei duelli verbali.
Di fronte all’inopinato “lieto fine”, con la notizia della fanciulla sottratta per volere della dea al sacrificio, l’interprete Arianna Scommegna, stando seduta ad ascoltare e senza parlare, esprime l’amara incredulità e lo strazio di Clitemnestra condensandola nella sua espressione facciale e nella postura tesa che ha ceduto il posto all’esuberanza dell’inizio da vamp con pelliccia, occhiali scuri e tacchi a spillo. L’Oreste bambino qui presente intento a giocare con la bici e con le macchinette, inconsapevole ancora della futura sorte funesta, lo ritroviamo ormai adulto nella seconda rappresentazione e dopo l’avvenuto matricidio. Assistito da Elettra all’interno di un recinto di terra che delimita il suo confino, lo scopriamo sporco e coperto di stracci, già avviato alla follia istillata dalle Erinni e sul punto di venire condannato a morte, assieme alla sorella, da una demagogica assemblea popolare.
E a niente servirà cercare soccorso presso Elena, né appellarsi allo zio Menelao, o al nonno Tindaro. Sentendosi perduti, Elettra e Oreste, assieme al fedele amico Pilade decidono, con un’azione estrema, non più per sete di giustizia ma per salvarsi la vita o morire “da duri”, di uccidere Elena e di sequestrarne la figlia Ermione, ricattando Menelao per ottenere vita e libertà. La strage si compie accesa da una furia giovanile che non ha redenzione. Se non chiedendo pietà agli dei. Si chiude qui la tragedia.
Rimane un grumo di dolore in entrambe le tragedie. E il nostro sentire, cercando cosa rimane dentro quel grumo di verità. Cast eccellente, con, quasi tutti, che si alternano in due differenti ruoli: Giovanni Drago (Oreste e Messaggero), Giordana Faggiano (Ifigenia ed Elettra), Valerio Binasco (Agamennone), Arianna Scommegna (Clitemnestra), Jurij Ferrini (Menelao e Tindaro), Giovanni Calcagno (Achille e Messaggero), Nicola Pannelli (Menelao e Soldato), Giovanni Anzaldo (Pilade e Messaggero), Sara Bertelà (Elena), Letizia Russo (Elena).
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