Nel nuovo spettacolo, chi si aspetta la magnifica danza surreale che i Peeping Tom sanno creare, rimarrà deluso. Solo qualche accenno, brevissimi momenti soprattutto di uno dei performer (Chey Jurado) dal corpo estremamente elastico che accenna a strepitosi movimenti a terra o mentre volteggia suonando un violoncello. Il resto dello spettacolo è tutto recitato. Il nuovo lavoro della compagnia belga diretta da Franck Chartier e Gabriela Carrizo S 62° 58′, W 60° 39′ (al Festival Aperto di Reggio Emilia, e a Torinodanza), è un’autocelebrazione di se stessi, del regista (forse le ossessioni private di Chartier, che firma da solo regia e ideazione dello spettacolo?), della compagnia, della loro storia ventennale, del loro peculiare, visionario linguaggio teatrale; il luogo possibile dove, nei continui dialoghi e monologhi, si fanno i conti col tempo che passa, e si mette in discussione il proprio lavoro, la passione e i sacrifici per aver dedicato tutta la vita all’arte, rinunciando – dirà, per esempio, uno degli attori – a veder crescere il proprio figlio, e, per il costante viaggiare, a stare lontano dai propri cari.
Lo spettacolo racchiude una summa della pratica artistica dei Peeping Tom, a partire dalle scenografie iperrealistiche sempre stupefacenti per originalità di idee e di realizzazione dovuta anche ai grandi mezzi tecnici di cui godono. Qui siamo in un paesaggio artico con una grande barca arenata dentro una montagna di ghiaccio, e un piccolo equipaggio di sopravvissuti, nel tentativo iniziale di liberarla, e in quello, inutile, di sbloccare il motore, e di richiedere aiuto perché isolati anche dal sistema radio di navigazione. Mentre infuria un forte vento artico e le correnti agitano l’imbarcazione, succedono più cose: tra cui l’annegamento di un ragazzo scivolato nelle acque gelide, e il cui corpo senza vita viene ripescato da un sub. Nella costrizione degli eventi e dell’isolamento, affiorano i singoli personaggi con le loro peculiarità, le storie personali, i caratteri, ironicamente e figurativamente descritti dalle loro stesse performance e nelle azioni che li vedono tutti coinvolti.
Il titolo della pièce indica le coordinate GPS di un’isola australe, Deception Island, ovvero Isola dell’Inganno. E in inganno siamo tratti scoprendo a metà spettacolo, da una voce che interviene fuori campo, che ciò a cui stiamo assistendo in realtà è il set cinematografico per le riprese di un film, col regista che blocca le scene mettendo in dubbio le scelte e la direzione da dare agli attori, rivelando così la sua crisi creativa e umana che col film vorrebbe esorcizzare. Da qui hanno inizio le diatribe con il cast che, tra rivendicazioni e critiche, si rifiuta di continuare ad assecondarlo. Al performer che platealmente se ne va urlando, subentra il suo rientro e la ripresa del ciak, nuove istruzioni, nuovi stop per le sfuriate degli altri attori poi invitati a calmarsi e a rientrare nella parte; altre interruzioni con due amanti che si insultano, con chi rinfaccia al regista gli insopportabili cliché, con l’attrice (Marie Gyselbrecht) dal finto pancione d’incinta, che riversa in scena tutte le proprie frustrazioni.
In S 62° 58′, W 60° 39′ siamo nel mezzo della rinnovata dinamica del “teatro nel teatro”, dove si intrecciano realtà e finzione, con l’intento generale, di Chartier, di parlare della violenza fisica, psicologica, manipolativa, e delle esperienze dolorose vissute da condividere. Tra cui, la più eclatante nel finale: quella di un uomo, il bravissimo Romeu Runa, in lotta col suo démone, la sua parte oscura. Nel clou del suo delirio fisico e mentale, alternando la voce e dimenandosi ossessivamente, si spoglia nudo. Rompendo la quarta parete, scende nella platea illuminata, si offre senza più finzione, allo sguardo del pubblico, continuando a infierirsi e a sdoppiarsi con la “bestia” in sé, rivelando gradualmente, dallo stato emotivo che avvicenda, la fragilità e la paura che lo abitano; fino a che, alla sua richiesta che qualcuno venga a prenderlo e aiutarlo, esce dal parterre accompagnato da un “salvatore” offertosi spontaneamente. I messaggi da trarre dallo spettacolo sono molteplici.
In quella situazione incidentata di isolamento dei personaggi, per essere andati fuori rotta in seguito ad un insolito evento atmosferico, c’è il tema dei cambiamenti climatici che stravolgono ogni previsione; c’è soprattutto l’allegoria dello smarrimento dell’artista, arenatosi creativamente e in cerca di una via d’uscita per non ripetere sempre se stesso; e c’è la metafora dell’uomo in crisi di valori, costretto, gioco forza, ad un certo punto, a fare i conti col vissuto della propria vita, col messaggio, forse implicito, della necessità di essere insieme per salvarsi e trovare la strada maestra.
Sollecitando gli attori a esprimere le proprie emozioni, a calarsi nella parte, a domandarsi cosa sentire in una scena prima di eseguirla, Chartier si interroga anche – domanda antica e sempre nuova – su cosa dovrebbero essere il teatro e la performance oggi, nell’invadenza veloce di TikTok, Instagram e YouTube.
Dicevamo dei brevi sprazzi di danza. Ne avremmo desiderata molta di più, che avrebbe ben reso e sostanziato, col geniale movimento che contraddistingue lo stile dei Peeping Tom, le tematiche in questione. Il troppo recitato – strepitosi, comunque, gli attori e performer -, e il meccanismo drammaturgico innescato, risultano, alla lunga, come degli sketch.
Dal 23 al 25 gennaio 2024 al Teatro Argentina di Roma. Co-realizzazione Teatro di Roma – Teatro Nazionale e Fondazione Musica per Roma in anteprima nel Festival Equilibrio 2024. Produzione Peeping Tom.
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