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Il Terzo Reich di Romeo Castellucci. Nel regime della parola abusata
Arti performative
di Elisa Longo
Prodotto nel 2020 dalla Socìetas Raffaello Sanzio, video installazione di Romeo Castellucci, suoni di Scott Gibbons, performance e coreografia di Gloria Dorliguzzo, “Il Terzo Reich” è esempio ben strutturato di un processo di ibridazione, che vede intrecciarsi performativo e installativo in uno spazio scenico caratterizzato dalla prevalenza del buio e della violenza acustica e visiva. Presentato durante la rassegna Fog Performing Art, con il debutto di Romeo Castelluci come Grand Invitè della Triennale di Milano (2021), dopo varie tappe italiane è approdato anche a Catanzaro: un’opportunità offerta da Armonie d’Arte Festival, importante rassegna culturale ideata e diretta da Chiara Giordano, arrivata alla sua XXII edizione. La locandina recita: “sconsigliata la visione a persone fotosensibili, epilettiche e cardiopatiche. In dotazione tappi per le orecchie”. L’esperienza che ci si prepara a vivere è già anticipata da un preavviso che varrebbe come un libretto d’istruzioni appena abbozzato.
Corporeità, presenza e riti di liberazione
Gloria Dorliguzzo, nel Terzo Reich coreografa e performer, è la protagonista di un soliloquio che spezza o amplifica il buio spettrale dell’incipit. Nello schieramento di oggetti portati in scena e intercettati nella penombra, una colonna vertebrale esibita come una reliquia: strumento quasi privilegiato dell’azione, è la materia, la cosa, il segmento biologico di un processo evolutivo che, specificamente nell’uomo, ha segnato la sua ascesa verso la forma verticale.
La colonna vertebrale che contribuisce, nella storia dell’evoluzione della specie, a caratterizzare le differenze biologiche tra vertebrati e invertebrati, tra bipedi e quadrupedi, in fasi di adattamento alle condizioni ambientali e alle esigenze fisiologiche, che nella specie umana ha portato all’homo erectus. Poi all’uomo culturale che, nell’orbita del segno, ha iniziato la sua partita in quel gioco sociale che è il linguaggio.
Prima deposta sacralmente, poi distrutta in un colpo, la spina dorsale diventa negazione della gerarchia e dell’apparenza, de-classificazione della forma, azzeramento della diversificazione. Movimenti sinuosi, morbidi ma veloci, proiettano sulla performer la parvenza di un invertebrato, come risultante di un rituale di liberazione del corpo, che intanto si consuma in un ritmo sempre più incalzante e irregolare. Il nucleo dell’azione è dunque il corpo materico che sonda la sua presenza nello spazio e ne regala una percezione rinnovata. Una possibile prossimità concettuale agli snodi offerti da Roger Caillois nel suo “Mimetismo e psicastenia leggendaria”, che nella pratica surrealista si sviluppò in una concezione disgregativa della presenza corporea, sfociata poi in mutilazioni e decollazioni dell’antropomorfismo.
Scott Gibbons e la logica del suono tattile
É Scott Gibbons che lavora alla cristallizzazione dell’atmosfera acustica, creando un ambiente perturbante e distorsivo. Il lavoro sul suono, che è da sempre il perno del connubio Castellucci-Gibbons, risponde al medesimo scopo di destrutturare il suo più alto concetto musicale, la sua realtà codificata, e di restituirlo in vibrazioni, in frammenti di materia acustica che partecipano, insieme al corpo, allo scambio sensoriale ed esperienziale tra gli astanti.
Nel Terzo Reich, il tappeto sonoro è la linea di congiunzione tra la performance e l’avvio della video installazione, in un’emersione sempre crescente di frequenze che supera i limiti della tollerabilità. Un vero e proprio bombardamento, che agisce sui canali sensoriali in più modi: in primo luogo, la canalizzazione dell’ascolto all’interno di un range acustico, che improvvisamente passa dalla percezione delle basse alle alte frequenze; la mancanza di un ritmo regolare e uno scollamento suono – movimento/ suono – immagine, che violenta letteralmente la consapevolezza dello spettatore, che invano e per forza d’abitudine tenta di tenere il tempo o di rintracciare una coordinazione.
La parola oggetto e la dittatura del linguaggio nel Terzo Reich
Alla fine della sua performance, Gloria Dorliguzzo come ricostituita sacerdotessa accende un cero e, simbolicamente, data la congruenza tra visione e linguaggio, una roulette di parole che gira a velocità sempre crescente. Circa 1.200 sostantivi proiettati su un maxi schermo come immagini ad alta frequenza investono, con la violenza di un treno in corsa – che pure pare di avvertire nel marasma sonoro – lo spettatore e si susseguono fino a diventare inafferrabili.
Se caratteristica del linguaggio è quella di essere articolato e, dunque, diviso in tante unità minime, è lo strutturarsi gerarchicamente di queste unità a garantire la sua funzionalità. Cosa che in questa circostanza, invece, si disinnesca. La possibilità di lettura si azzera, così come le possibilità di senso. Senza difese, lo spettatore non può far altro che subire la violenza visiva e acustica e uscire dall’atteggiamento interpretativo.
Come risultato di un processo inverso di frammentazione del linguaggio, la parola oggetto si schianta contro l’occhio, il suono materico penetra l’orecchio, il corpo diventa una cosa nello spazio, al pari delle altre cose. Un modo per sottolineare la dittatura del linguaggio e difendersene, che in qualche modo potrebbe richiamare la lettura di Victor Klemperer, che in “LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo”, raccontò l’uso manipolatorio della parola negli anni della Germania nazista. E ancora oggi, è proprio l’abuso della parola da parte del potere che mortifica la verità e spinge pericolosamente verso modelli di omologazione.