In Scena è la rubrica dedicata agli spettacoli dal vivo in programmazione sui palchi di tutta Italia: ecco la nostra selezione della settimana, dal 13 al 19 gennaio.
Lo spettacolo La collezionista, nuovo testo di Magdalena Barile prodotto da Teatro dell’Elfo e diretto da Marco Lorenzi, applaudito regista alla guida della compagnia Il mulino di Amleto, nasce da un’idea di Ida Marinelli, liberamente ispirata a una figura centrale dell’arte del Novecento, Peggy Guggenheim, che questo secolo lo ha attraversato come nessun altro.
È un personaggio di finzione, alla cui costruzione ha contribuito anche una seconda figura e fonte d’ispirazione: Luisa Casati Stampa, nobildonna milanese, musa e anch’essa collezionista d’arte, che visse, come la Guggenheim, a ca’ Venier dei Leoni a Venezia. La “nostra” Collezionista è una Marchesa, circondata da altri personaggi surreali: il suo assistente Marcel, che la asseconda, la sostiene (e forse la manipola) e due artisti immaginari. Tra luci e atmosfere lagunari prende vita questa commedia sull’arte contemporanea: una casa-museo, una galleria quasi del tutto svuotata delle opere che la abitavano, accoglie gli spettatori-visitatori.
«La Marchesa, una delle più grandi collezioniste al mondo, sembra aver perso il suo amore per l’arte. Il suo museo è sotto attacco: i finanziamenti scarseggiano e la nuova generazione di attivisti e attiviste per il clima minaccia l’incolumità delle opere. Per questo motivo si vede costretta a chiudere la collezione nel caveau del suo palazzo veneziano dove aspetta la fine. Marcel, assistente e amico della Marchesa, non si dà per vinto e la convince a incontrare ancora due nuovi artisti, Lux e Andy, capaci con le loro poetiche diversamente contemporanee di incarnare l’artista del secolo. Ai due l’ultima chance di risvegliare la passione della collezionista o di affondarla per sempre».
“La Collezionista”, di Magdalena Barile, regia Marco Lorenzi, con Ida Marinelli e con Yuri D’Agostino, Barbara Mazzi, Angelo Tronca, scene Marina Conti, luci Giulia Pastore, costumi Elena Rossi, suono Gianfranco Turco. Produzione Teatro dell’Elfo, A.M.A. Factory. A Milano, Teatro dell’Elfo, fino al 2 febbraio.
Ispirati dal lavoro dell’artista austriaco Martin Kunze, Marcus Lindeen – regista e drammaturgo svedese, artista associato al Piccolo Teatro – e Marianne Ségol – drammaturga francese – in Memory of Mankind intrecciano materiale documentario e finzione per riflettere sulla nostra storia collettiva, tra l’ossessione di ricordare e quella di essere ricordati.
Nel 2012, in una miniera di sale austriaca, il ceramista Kunze crea La memoria dell’umanità, collezione di tavolette di ceramica su cui incide testi e immagini, con l’obiettivo di fare un backup dell’umana civiltà. Secondo l’artista, tali tavolette sarebbero il materiale più resistente al momento disponibile e dovrebbero permettere a questi archivi dell’umanità di rimanere leggibili per migliaia di anni, forse anche centinaia di migliaia.
Oltre dieci anni dopo, Lindeen, insieme alla Ségol, lega il racconto di Kunze ad altre storie: un uomo la cui memoria si resetta completamente a intervalli regolari, e che riacquista ogni volta i ricordi grazie a sua moglie, che è una scrittrice; un archeologo queer, che vorrebbe falsificare il passato, per restituire un ruolo agli esclusi dalla Storia. Esplorando la complessa relazione tra memoria e oblio, lo spettacolo indaga che cosa significhi ricordare, che cosa bisognerebbe tenere a mente e che cosa, invece, dovrebbe essere dimenticato.
Lo spettacolo Memory of Mankind, una coproduzione internazionale con, tra gli altri, il Piccolo Teatro di Milano, debutta in prima nazionale al Teatro Studio Melato di Milano, dal 15 al 18 gennaio.
La Stagione di Danza della Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, riparte il 15 gennaio al Teatro Ariosto, con Tanzmainz, la Compagnia di danza contemporanea del Staatstheater Mainz, che presenta una serata con due coreografie firmate da Sharon Eyal, acclamata coreografa dalla firma inconfondibile, e da Philippe Kratz, fresco di nomina a direttore artistico del Nuovo Balletto di Toscana e con un passato di indimenticato danzatore di Aterballetto.
In Promise Eyal, combina l’estetica classica e la fisicità della danza con la musica elettronica. In scena i sette danzatori diventano un corpo unico, muovendosi, nell’ombra, tra vicinanza e desiderio, estasi e solitudine, in uno spazio in cui le immagini irreali scompaiono con la stessa rapidità con cui sono arrivate, eppure restano chiaramente visibili, come istantanee nella mente.
Unfolding, in prima italiana, è il titolo di un gioiello di dieci minuti che Kratz ha sviluppato con un quartetto dell’ensemble Tanzmainz. Il linguaggio del corpo, molto preciso e idiosincratico, che richiede un alto livello di abilità tecnica da parte dei danzatori, si dispiega in costante relazione con lo spazio. Il repertorio di assoli molto complessi si sviluppa in un gruppo artistico e intricato, con intensità e linearità crescenti. Grafica del corpo ad alta perfezione, questo è il linguaggio della danza di Philippe Kratz.
Debutta il Tartufo di Molière, nella irriverente e spiazzante regia di Michele Sinisi. Chi è Tartufo? Un truffatore o un eroe? Un attore o un politico? Un prete o un guaritore? Un sant’uomo, come vuole il padrone di casa, o un impostore, come vuole il resto della famiglia che lo ospita? Un mistificatore o un uomo consapevole delle mistificazioni altrui? Il suo ingresso, all’inizio del terzo atto, fa l’effetto di un’apparizione insolita, capace di zittire l’intera casa, arrestare il ritmo della commedia.
Lo spazio del palcoscenico sembra ingrandirsi per contenere, insieme alla nostra curiosità, le poche, lente, sillabe dell’ospite che non abbiamo mai visto ma che è stato preceduto dalle tante parole dette su di lui. L’angelo a cui mirare (per mettere in fuga, se non riusciamo ad ucciderlo del tutto) è la Verità.
Ecco che la commedia di Molière racconta, in un meccanismo quasi pirandelliano, la nostra tendenza ad accumulare immensi fascicoli di menzogne, labirinti di ipotesi, come in un buio castello dove è impossibile distinguere in fondo ai corridoi che ci guidano al nulla, coi nostri occhi di gente che sogna, il vero dal falso. Il nostro Angelo è un’illusione, una fata Morgana: tutto ciò in cui vogliamo credere anche a costo di tutte le evidenze.
“Tartufo”, dall’omonima commedia di Molière, rielaborazione drammaturgica e regia Michele Sinisi, con Stefano Braschi, Gianni D’addario, Sara Drago, Marisa Grimaldo, Donato Paternoster, Bianca Ponzio, Marco Ripoldi, Michele Sinisi, Adele Tirante, scenografia Federico Biancalani, disegno luci Michele Sinisi, Federico Biancalani, costumi Cloe Tommasin. Produzione Elsinor Centro di Produzione Teatrale. A Milano, Teatro Fontana, dal 14 al 26 gennaio.
La compagnia ravennate Fanny & Alexander, tra le più importanti realtà teatrali italiane riconosciute e affermate anche all’estero, presenta a Bologna due recenti lavori: Manson (al Teatro delle Moline, dal 15 al 19 gennaio), e Maternità (Sala Thierry Salmon dell’Arena del Sole dal 17 al 19).
Due spettacoli per un attore solo, entrambi diretti da Luigi Noah De Angelis: il primo vede in scena Andrea Argentieri nei panni del noto assassino statunitense Charles Manson, ritenuto il responsabile dell’eccidio di Cielo Drive, in cui furono ammazzati l’attrice Sharon Tate, moglie di Roman Polański, e quattro suoi amici, e quello ai danni del dirigente d’azienda Leno LaBianca e di sua moglie.
Il secondo, Maternità, con l’attrice e fondatrice della compagnia Chiara Lagani, è tratto dal romanzo autobiografico dell’autrice canadese Sheila Heti, dal quale la stessa Lagani ha realizzato la drammaturgia. I due lavori, per la prima volta rappresentati assieme, sono accomunati da una struttura drammaturgica che prevede l’interazione col pubblico.
In Manson, gli spettatori pongono delle domande all’imputato, quasi come fossero membri di una giuria. Mentre in Maternità, il dispositivo è invertito, qui è l’attrice in scena che rivolge i quesiti agli spettatori, che muniti di telecomando, rispondono “si” o “no”, come in un referendum.
Void è la nuova creazione di Wim Vandekeybus, danzatore, regista e fotografo belga fra i maggiori coreografi contemporanei. Sperimentatore eclettico fin dagli esordi, l’artista fiammingo è al centro della scena europea dalla metà degli anni Ottanta, annoverato, accanto a nomi come Jan Fabre, Alain Platel e Anne Teresa De Keersmaeker, fra gli esponenti della cosiddetta “ondata fiamminga” che in quel periodo ha profondamente innovato il linguaggio della danza.
Il titolo Void nasce dall’idea che il vuoto rappresenti un potenziale. «Spesso pensiamo allo spazio vuoto come privo di significato – commenta il coreografo – ma non è così. Immaginate una sala d’attesa in un ospedale dove nessuno parla. Sembra vuota, ma sotto la superficie si muovono molte cose».
La scena è minimale, plasmata dal suo sguardo di fotografo e regista visivo che con fondali volatili, luci e una macchina del fumo crea ambienti mobili e atmosfere cangianti. Pochi oggetti, funzionali ai performer che a tratti li assorbono e li usano per mettersi in relazione fra di loro. I corpi popolano e trasformano uno spazio libero, in cui si attraggono l’un l’altro come magneti. In questa “bolla”, sei personaggi prendono la scena. Si tratta di individui con vissuti interiori forti, molto rivolti verso se stessi e perciò isolati ai margini del mondo esterno.
Dopo il debutto a Brussels il 23 ottobre scorso, la prima italiana, nell’ambito della rassegna Carne a cura di Michela Lucenti, è in programma al Teatro Bonci di Cesena il 16 gennaio, e al Teatro Storchi di Modena il 18. Void è una coproduzione internazionale di Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale con Ultima Vez, KVS Brussels’ Flemish city theatre, Danseu Festival e Theater im Pumpenhaus.
Una macchina fotografica su un treppiede al limitare delle onde e uno scrittore che muore su una spiaggia per aver mangiato delle fragole contaminate dal colera, simbolo dell’inesplorato che c’è in ognuno di noi. Questo di Liv Ferracchiati non è un adattamento teatrale de La Morte a Venezia, ma un percorso scenico liberamente ispirato al romanzo che combina tre diversi linguaggi: parola, danza e video. Distaccandosi dal tema dell’omoerotismo e della differenza d’età, rimane l’incontro a Venezia tra Gustav Von Aschenbach e Tadzio, rimane la morte.
Due sconosciuti che vivono ciò che Thomas Mann riassume così: «Nulla esiste di più singolare, di più scabroso, che il rapporto fra persone che si conoscano solo attraverso lo sguardo». Il tentativo è di avvicinare questi due personaggi a noi e, allo stesso tempo, di raccontare la fatica di scrivere e di come questa fatica, alla fine, sia squarciata da momenti rari, bellissimi e terribili, fatti di incontri con altri esseri umani. Ironicamente, terzo personaggio è la Parola, che prima cerca un’armonia in una forma cristallizzata e poi si libera, si concretizza, si accende, ritrova una sua forma estrosa, per quanto ridicola e vana di fronte all’irraccontabile.
La morte a Venezia”, libera interpretazione di un dialogo tra sguardi, ispirato a La morte a Venezia di Thomas Mann, drammaturgia e regia di Liv Ferracchiati, con Liv Ferracchiati e Alice Raffaelli, movimento Alice Raffaelli, dramaturg Michele De Vita Conti, scene Giuseppe Stellato, costumi Lucia Menegazzo, luci Emiliano Austeri, suono Spallarossa, voce di Tadzio Weronika Młódzik, consulenza letteraria Marco Castellari. Produzione Marche Teatro / TSU Teatro Stabile dell’Umbria / Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, coprodotto con Spoleto Festival dei Due Mondi, in collaborazione con Fondazione Piccolo Teatro di Milano -Teatro d’Europa. A Perugia, Teatro Morlacchi, dal 16 al 18 gennaio; a Roma, Teatro India, dal 5 al 9 febbraio.
Alla base di tutto c’è l’intreccio: «George, uno scrittore di gialli “che potete trovare in qualsiasi supermercato”, non riesce a superare il dolore per la morte di sua moglie. Jennie, un’attrice teatrale, fa i conti con il fallimento del suo matrimonio con un giocatore di football che forse non ha mai amato. A farli incontrare saranno Leo, fratello maggiore di George che fa l’ufficio stampa a Broadway, e Faye, migliore amica di Jennie e aspirante regina delle soap opera. Entrambi, come se fosse in ballo la loro felicità, cercano con ogni mezzo di far scoccare la scintilla tra George e Jennie, e, mentre brigano per far nascere il grande amore, si ritrovano ad avere una tresca dagli esiti incerti. Leo e Faye scopriranno presto che la scintilla che hanno innescato si è trasformata in un incendio: George e Jennie vogliono sposarsi dopo appena due settimane che si conoscono».
A raccontare la trama di Capitolo due del drammaturgo americano Neil Simon, è il regista Massimiliano Civica, alle prese con questa brillantissima commedia, poco nota in Italia. Capitolo due – continua Civica – è una svolta nella sua carriera: per la prima volta “mette in commedia” una sua dolorosa esperienza personale. Scritto dopo la morte di sua moglie, questo testo inaugura il “secondo capitolo” nella vita e nell’arte di Simon: diventerà un maestro nel raccontare storie dove i protagonisti dicono e fanno cose buffe in ridicolo contrasto con la tristezza che provano. Affidato a un quartetto di solidi interpreti, Capitolo due sa raccontare con empatica e dolente consapevolezza «Quella dolorosa gioia che è vivere».
“Capitolo due”, di Neil Simon, regia Massimiliano Civica, con Maria Vittoria Argenti, Ilaria Martinelli, Aldo Ottobrino, Francesco Rotelli, scene Luca Baldini, costumi Daniela Salernitano, luci Gianni Staropoli. Produzione Teatro Metastasio. A Genova, Teatro Gustavo Modena, dal 16 al 19 gennaio.
Nel III secolo a.C., sotto il regno di Tolomeo II, una commissione di settantadue sapienti ebrei fu incaricata di tradurre in greco il Pentateuco, ovvero i primi cinque libri della Bibbia (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio). Le narrazioni contenute in questi libri sacri rappresentarono un vero e proprio spartiacque, relegando il mito, che fino a quel momento era stato il principale strumento per spiegare le origini e l’ordine del mondo, a una sfera di fantasia. Il linguaggio dell’Antico Testamento, intriso di simbolismi e significati profondi, pone la sfida di una lettura che sappia cogliere non solo il messaggio religioso, ma anche il contesto storico e culturale in cui quei testi furono scritti.
Il regista Gabriele Vacis e gli artisti di PoEM si sono confrontati con queste domande, tentando di restituire la poesia e la profondità di quei testi millenari attraverso un linguaggio che parla all’uomo di oggi, ricucendo il legame tra passato e presente e donando nuova vita alle parole che, pur distanti nei secoli, continuano a risuonare con forza nelle coscienze.
“La Trilogia dei Libri. Antico Testamento”, regia Gabriele Vacis, drammaturgia Gabriele Vacis, Lorenzo Tombesi e Compagnia PoEM, con Davide Antenucci, Andrea Caiazzo, Pietro Maccabei, Lucia Raffaella Mariani, Eva Meskhi, Erica Nava, Enrica Rebaudo, Edoardo Roti, Kyara Russo, Letizia Russo, Lorenzo Tombesi, Gabriele Valchera, scenofonia e ambienti Roberto Tarasco, suono Riccardo Di Gianni, cori a cura di Enrica Rebaudo. Produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, in collaborazione con PoEM Impresa Sociale Potenziali Evocati Multimediali. A Torino, Fonderie Limone Moncalieri, dal 14 al 26 gennaio. Prima nazionale.
Capolavoro della letteratura del ‘900, La leggenda del santo bevitore di Joseph Roth, venne allestito sulla scena nella stagione 2006-07, pensato e realizzato per Piero Mazzarella dalla regista Andrée Ruth Shammah. Oggi a ricoprire il ruolo del protagonista Andreas Kartak, è il grande maestro Carlo Cecchi.
Si tratta della storia di un uomo, di un’esistenza perduta dietro alle occasioni della vita, ma, protesa fino alla morte verso l’adempimento di un dovere morale. Portentosi colpi di fortuna, imprevedibili incontri, inaspettati guadagni, stupefacenti rinvenimenti che si dissolvono nell’alcool, sono raccontati con profonda e fragile umanità, da Cecchi, allo stesso tempo protagonista e narratore.
La società e la storia non figurano, vivono nella mente dell’autore e appaiono attraverso proiezioni fantasmatiche, che rimandano lontano nel tempo, alla storia d’Europa, ma anche a quella dell’uomo, dei suoi desideri, delle sue traversie. Lo stesso bar dove si svolge la vicenda è una suggestione visiva. Le immagini entrano nello spettacolo come memoria e fantasia, sostenute da una colonna sonora struggente che va da Stravinskij al jazz, dalle melodie yiddish e russe alla musica parigina.
Non c’è spazio per chiedersi che senso abbiano i fatti che accadono in scena, ma si percepisce la corposità dei temi ai quali alludono: l’identità, l’onore, l’assimilazione, l’isolamento, l’eros, la religione, la morte.
“La leggenda del santo bevitore”, di Joseph Roth, adattamento e regia Andrée Ruth Shammah, con Carlo Cecchi e con Claudia Grassi e Giovanni Lucini, spazio scenico disegnato da Gianmaurizio Fercioni con le suggestioni visive di Luca Scarzella e Vinicio Bordin, luci Marcello Jazzetti, costumi Barbara Petrecca. Produzione Teatro Franco Parenti. A Milano, Teatro Franco Parenti, dal 16 al 26 gennaio.
Scritto da Maricla Boggio, Il Sogno di Nietzsche (regia di Ennio Coltorti, e con Jesus Emiliano Coltorti, Adriana Ortolani e lo stesso Coltorti, all’OFF/OFF Theatre di Roma, dal 14 al 16 gennaio), è un viaggio all’interno della visione filosofica e di vita del pensatore tedesco, uno spaccato della vita privata del filosofo, con i suoi aspetti umani, sinceri, giocosi e sentimentali. Tre amici, due uomini e una donna, uniti in un triangolo che, ai tempi, era considerato singolare, per una riflessione sorprendentemente attuale.
«In mezzo a un turbine di affermazioni filosofiche e di teorie – scrive l’autrice – ciò che caratterizza la persona Nietzsche è il forte impulso alla vita e talvolta il prevalere dei sentimenti rispetto alla ragione quando si tratta della propria esistenza e non della filosofia. É da questa dimensione del personaggio che si sviluppa il testo teatrale, attraverso le vicende che lo vedono agire, amare, soffrire e reagire alla sofferenza, fisica e sentimentale mediante lo sforzo smisurato e vincente della sua genialità intellettuale. Nell’evolversi del personaggio hanno parte determinante due referenti – Lou Salomè e Paul Rée -, di cui possiamo comprendere modernamente – tenuto conto dei mutamenti di costume – il loro rapporto allora considerato singolare. Si tratta di un triangolo di amici che vogliono condividere alla pari, al di là del sesso, la passione per lo studio».
A Londra ha riscosso un successo enorme la grande mostra di Vincent Van Gogh: sold out anche nell’ultima settimana e…
I linguaggi narrativi contemporanei, tra arte e tecnologia, realtà aumentata, blockchain e NFT, in un nuovo volume ricco di contributi…
Il Parco del Colosseo rappresenta un patrimonio naturale, con 40 ettari di estensione e migliaia di alberature: in programma interventi…
Era ricoverato all'ospedale di Cecina, a seguito delle complicanze di una malattia che lo affliggeva da tempo. Celeberrimo fotografo, icona…
Fino al prossimo 21 aprile, al Museo Mario Rimoldi di Cortina d’Ampezzo, una mostra coloratissima esplora l’estetica Neo Pop di…
Sono protagoniste nella retrospettiva dedicata a uno dei membri più noti del Nouveau Réalisme: le "macchine inutili" di Tinguely riempiono…