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In Scena è la rubrica dedicata agli spettacoli dal vivo in programmazione sui palchi di tutta Italia: ecco la nostra selezione della settimana, dal 7 al 12 gennaio.
Teatro e danza
A teatro il film-testamento di Ingmar Bergman
«Sarabanda – scrive Roberto Andò nelle note di regia dello spettacolo – è il film-testamento di Ingmar Bergman. Il grande regista lo girò nel 2003 con una telecamera digitale, affidandolo a due attori simbolo della sua filmografia come Erland Josephson e Liv Ulmann. È concepito in dieci scene in cui, volta per volta, si avvicendano due dei quattro personaggi che ne compongono il disegno. Una struttura musicale che allude alla sarabanda, una danza per coppie solenne e lasciva che venne proibita nella Spagna del sedicesimo secolo, per poi essere adottata da grandi compositori come Bach o Handel».
In questa sorta di testamento artistico, il Maestro svedese torna a parlare dei protagonisti di Scene da un matrimonio diventati, trent’anni dopo, più maturi ma anche più spietati. Il loro è un ultimo confronto che, in presenza di un figlio e di una nipote, evidenzia le molteplici sfumature delle relazioni umane e familiari e la loro capacità di generare rimpianti, rimorsi, rancori. Un testo scomodo nella sua cruda onestà, ma il cui vero messaggio non è affidato alle parole, ma ai silenzi e ai gesti.
«Il Bergman di Sarabanda – sottolinea ancora il regista – non sembra credere più a nulla, è disperatamente distruttivo, e incatena i propri personaggi a un pessimismo totale sul senso delle relazioni umane».
“Sarabanda”, di Ingmar Bergman, traduzione Renato Zatti, regia Roberto Andò, con Renato Carpentieri, Alvia Reale, Elia Schilton, Caterina Tieghi, scene e luci Gianni Carluccio, costumi Daniela Cernigliaro, musiche Pasquale Scialò, suono Hubert Westkemper. Produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro Nazionale di Genova, Teatro Biondo Palermo. A Napoli, Teatro Mercadante, dal 7 al 19 gennaio. Prima nazionale.
Neil LaBute e la fragilità della forma delle cose
Nella sala di un museo di una piccola cittadina di provincia, ai piedi della statua dell’artista Fornecelli, raffigurante Dio, si incrociano le vite di Adam, un giovane guardiano di sala, ed Evelyn, una studentessa d’arte dalla personalità magnetica, impegnata nel suo progetto di laurea. Questo incontro segna l’inizio di una serie di eventi che porterà i protagonisti a confrontarsi con le proprie fragilità, mettendo in discussione le certezze su cui hanno costruito la propria identità – o “forma” – e destabilizzando il precario equilibrio delle loro vite.
La forma delle cose (The Shape of Things) di Neil LaBute è uno dei testi che compongono la “Trilogia della bellezza”, scritta dal drammaturgo americano tra il 2001 e il 2008, e Marta Cortellazzo Wiel ha deciso di metterlo in scena per esplorare i rapporti umani, la loro fragilità e i processi di manipolazione che essi possono subire. In questa storia una giovane artista entra con prepotenza nella vita di tre ragazzi, modificando gli equilibri di rapporti consolidati e influenzando le loro stesse identità. I dialoghi brillanti tra i quattro protagonisti celano in realtà una violenza silente e condizioni psicologiche sempre più tese e sull’orlo di un disastro, che solo alla fine rivelerà le macerie della lotta.
“La forma delle cose”, di Neil LaBute, traduzione Masolino d’Amico, con Christian di Filippo, Celeste Gugliandolo, Marcello Spinetta, Beatrice Vecchione, regia Marta Cortellazzo Wiel, scene e costumi Anna Varaldo, luci Alessandro Verazzi, suono Filippo Conti. Produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale. A Torino, Teatro Gobetti, dal 7 al 19 gennaio 2025. Prima nazionale.
Al via il festival Orbita
Ritorna dal 10 gennaio al 20 maggio a Roma, tra il Teatro Palladium, il Teatro Biblioteca Quarticciolo e lo Spazio Rossellini, la Stagione Danza 2025 del Centro Nazionale di Produzione della Danza Orbita Spellbound, con la direzione artistica di Valentina Marini. Unica stagione dedicata interamente alla danza della capitale, con diciotto spettacoli, di cui due prime assolute, tre prime nazionali, otto prime regionali per cinque mesi di programmazione, In levare – questo il titolo scelto per questa quarta edizione- presenta in un unico cartellone artisti e compagnie che hanno segnato la storia della danza contemporanea italiana.
Ad aprire la stagione il 10 gennaio al Teatro Palladium è lo spettacolo Venere vs Adone, rilettura attraverso diversi media e linguaggi del celebre poemetto shakespeariano, nuova creazione di Enzo Cosimi, coreografo tra i più autorevoli e rappresentativi della scena italiana con la collaborazione alla drammaturgia di Maria Paola Zedda.
Trilogia Cechov di Leonardo Lidi
Dal 9 al 12 gennaio il regista Leonardo Lidi presenta al Teatro Arena del Sole di Bologna Il giardino dei ciliegi di Anton Čechov, terza e ultima tappa della Trilogia dedicata al grande drammaturgo russo, che sarà possibile vedere interamente in una maratona teatrale sabato 11 gennaio: a partire dalle 14:30 fino alle 21 (orario di inizio dell’ultimo spettacolo) andranno in scena i tre episodi dell’intero progetto cechoviano: Il Gabbiano (coproduzione ERT), Zio Vanja e Il giardino dei ciliegi, con delle pause di un’ora tra l’uno e l’altro. Infine chiude il cerchio la terza tappa, Il giardino dei ciliegi, forse tra le più note della drammaturgia russa, racconto del declino dell’aristocrazia terriera e dell’inafferrabile passare del tempo.
Un lavoro politico, secondo il regista, che pone le sue profonde domande al pubblico. Dopo cinque anni trascorsi a Parigi, Ljuba fa ritorno alla tenuta di famiglia, nella campagna russa. Una terribile notizia la accoglie: a causa dei debiti accumulati, la proprietà sarà messa all’asta. Il mercante Lopachin propone di lottizzare i terreni e affittarli, ma la donna non è pronta a cedere il suo magnifico giardino.
«Un testo che presenta a tratti monologhi – spiega il regista – più concettuali e smaccatamente filosofici rispetto ai precedenti, ma che continua a sballottarci da un personaggio all’altro, spostando la “ragione” su più punti e facendoci letteralmente girare la testa. (…) Termineremo il viaggio confusi, pieni di domande e con pochissime risposte. Ecco, forse, cosa vuol dire drammaturgia. Ecco perché Čechov, sopravvissuto al tempo, dovrebbe essere il maestro di riferimento del teatro del domani: un simpatico individuo che prendendosi un po’ in giro immette generosamente una riflessione nell’altro».
“Il giardino dei ciliegi”, di Anton Čechov, traduzione Fausto Malcovati, regia Leonardo Lidi, con Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Alfonso De Vreese, Ilaria Falini, Christian La Rosa, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Orietta Notari, Mario Pirrello, Tino Rossi, Massimiliano Speziani, Giuliana Vigogna/Sara Gedeone, scene e luci Nicolas Bovey, costumi Aurora Damanti, suono Franco Visioli. Produzione Teatro Stabile dell’Umbria, in coproduzione con Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Spoleto Festival dei Due Mondi. A Bologna, Teatro Arena del Sole, dal 9 al 12 gennaio.
Una casa nel bosco tra presenze e assenze
Singolare esercizio notturno tra i fantasmi e le paure che ci costituiscono, Uccellini – spettacolo dell’ensemble lacasadargilla – racconta di presenze e assenze, di umani (morti e vivi) e animali (vivi e morti). Di sguardi discordi nel dare senso al mondo, alle relazioni e alle perdite. E soprattutto di cosa c’è nel mezzo, sulla sottile linea di confine. Una casa nel bosco, un bosco che allo stesso tempo esiste e non esiste, non esattamente. E come potrebbe essere altrimenti? È circondata da vegetazione, ombre e creature, la casa. È certo il luogo reale dove è ambientata la vicenda. Un luogo, tuttavia affetto da una curiosa, cinguettante inquietudine, le cui pareti trasparenti riflettono la natura straordinaria di ogni circostanza.
Uccellini ha un impianto classico, si potrebbe dire. Una trama e un trauma lo sorreggono. Una famiglia lo abita. Una riunione familiare (imprevista e accidentale) vi accade. E come potrebbe essere altrimenti? Tutto, si tiene e si aggrappa – apparentemente – agli eventi, per liberare un qualcosa, elementi non ordinari che entrano lentamente nell’ambiente e nell’ordito della stessa scrittura.
In questo singolare esercizio notturno tra i fantasmi e le paure che ci costituiscono, c’è qualcun(altro) che sembra scrivere la storia, nascosto nel bosco. Prova a descrivere l’ambiente in cui la storia avviene. O la immagina, stando in ascolto. Perché questo qualcuno vive degli ambienti. Più che tra gli uomini. O meglio, vede gli uomini attraverso luci, umori, materie e rumori, e accanto gli animali (notturni) che vi abitano.
“Uccellini”, di Rosalinda Conti, un progetto di lacasadargilla, regia Lisa Ferlazzo Natoli, Alessandro Ferroni, con Emiliano Masala, Petra Valentini, Francesco Villano, paesaggi sonori e ideazione spazio scenico Alessandro Ferroni, ambienti visivi Maddalena Parise, scene Marco Rossi e Francesca Sgariboldi, disegno luci Omar Scala, costumi Anna Missaglia, disegno del suono Pasquale Citera. Produzione La Fabbrica dell’Attore/Teatro Vascello, in coproduzione con Romaeuropa Festival, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa. A Milano, Piccolo Teatro Studio Melato, dall’8 all’11 gennaio.
Le Rane al Teatro Due
Tassello importante del repertorio di Fondazione Teatro Due, Le Rane, dopo il debutto del 2012, torna in scena, l’11 e 12 gennaio al Teatro Due di Parma, ripreso e interpretato da Roberto Abbati, Cristina Cattellani, Laura Cleri, Davide Gagliardini, Luca Nucera, Massimiliano Sbarsi che affrontano la cruciale questione del ruolo politico della cultura, dell’arte, della poesia e del teatro nella società civile. E lo fanno con comicità e leggerezza, al ritmo di un sirtaki composto da Alessandro Nidi, lanciando frasi in un megafono, inscenando un duello poetico e affidando al voto del pubblico il responso.
Come si può salvare una città che non sa distinguere il bene dal male? si chiede Aristofane. La risposta non è semplice ma l’umorismo e l’ironia di questo antico ed attualissimo testo conducono il pubblico in un viaggio agli inferi surreale e sgangherato, alla ricerca delle verità, per la salvezza della polis che Aristofane crede attuabile attraverso il teatro. Le Rane parla di noi, di una società in decadimento. Atene nel 405 a. C. è una città in mano alla corruzione: lentamente si sgretola quella che per secoli era stata considerata la radice della modernità e un prezioso caso di raffinatezza culturale. Aristofane dunque ingaggia Dioniso, Dio del teatro e della doppiezza e lo manda nell’Ade alla ricerca degli antichi poeti-tragediografi che, resuscitando, possano restituire alla città i valori perduti.
L’Ensemble di attori di Teatro Due attiva questo classico della commedia greca, proponendolo a noi, figli di un pragmatismo miope e orfani di miti, in gran parte logori.
Bahamuth e Anelante di Rezza e Mastrella
La coppia Antonio Rezza e Flavia Mastrella torna a calcare le scene del Teatro Vascello di Roma con due spettacoli profondamente attuali: Bahamuth, dal 7 al 12 gennaio, e con Manolo Muoio e Neilson Bispo Dos Santos; e Anelante, dal 14 al 19, e con Ivan Bellavista, Manolo Muoio, Chiara A. Perrini, Enzo Di Norscia. Due opere che incarnano l’irriverenza e la profondità della loro arte, dove il corpo e lo spazio scenico si fondono in una simbiosi inimitabile.
Bahamuth, del 2006, è liberamente associata al Manuale di zoologia fantastica di Borges e Guerrero. In una scatola prospettica senza pareti, che costringe e amplifica il supplizio del corpo, un uomo trascorre l’agonia che lo porterà a una nuova vita fatta di rigurgiti tribali e storie trapassate, inquinate da assilli contemporanei. Lo spettacolo è una danza, salti verticali e spasmi che sollecitano le membra e sconvolgono gli organi interni. La parola si alterna all’urlo, ritmo e movimento trasformano il corpo. L’azione esplora gerarchie, meschinità e illusioni sociali, gli eventi si susseguono come in un montaggio cinematografico.
Anelante è, secondo gli autori, «Un participio presente che simboleggia la brama di potere, l’uomo che vuole sostituirsi a dio, uno spasmo degli occhi». La creazione si ispira alla lotta quotidiana dell’uomo contemporaneo contro la società che lo muta in un’entità virtuale. Un linguaggio che porta in scena corpi di strabordante vitalità, con la genialità, graffiante e l’ironia corrosiva tipica delle opere di Rezza e Mastrella. Un matematico parla senza comprendere ciò che dice, un adolescente sovverte il buon senso, mentre figure imprigionate lungo muri piatti osservano e spiano senza essere viste.
L’assurdo diventa specchio della realtà contemporanea, dove l’individuo è confinato tra barriere sociali e digitali.
Ma l’amor mio non muore
Uno spettacolo politico e deliziosamente ironico per raccontare il corpo che invecchia mentre l’anima conserva la verve per lanciarsi in atti sfrenati. Questo è Ma l’amor mio non muore / Epilogue, ultimo lavoro della compagnia belga Wooshing Machine (prima italiana l’11 gennaio, al Teatro Cantiere Florida di Firenze, a cura di Versiliadanza). Seguito naturale della Trilogia della Memoria, lavoro in tre atti che ripercorreva la vita degli autori, lo spettacolo intreccia ricordi intimi e memoria collettiva nell’impronta lasciata dalla vita sui tre danzatori e coreografi – Carlotta Sagna, Mauro Paccagnella e Alessandro Bernardeschi – figli degli anni settanta e ottanta italiani, emigrati in Francia e in Belgio alla ricerca di fermento politico, sociale e culturale.
Un lavoro che, nello stile che contraddistingue la formazione, fa convivere gravità e allegria, disinvoltura e disarticolazione, gigioneria e autoironia, gioia selvaggia e gravità. È vero che l’amore non muore, ma il tempo passa e i corpi dei monelli ne portano il peso. Il pubblico sente scricchiolare le articolazioni degli artisti: davanti a loro si spezzano. Quando un corpo minaccia di cadere è il compagno che si regge, si sostiene, prima di barcollare all’indietro, e non si può evitare di porsi una domanda bruciante e universale: che fare coi nostri involucri mortali?
L’umorismo gioca un ruolo essenziale, creando la distanza necessaria per guardare con giustizia alle storie personali dei tre interpreti e aprendo uno spazio catartico e liberatorio.
Cassandra o dell’inganno
Uno straordinario affondo nel Mito di Cassandra, figura dell’antichità tra le più tragiche e vertiginose. Sola, porta con sé il peso della conoscenza e il destino di non essere creduta. Tra i personaggi più frequentati da Elisabetta Pozzi in un lungo dialogo con le radici del teatro occidentale c’è Cassandra, oggetto di numerosi studi e spettacoli di cui questo Cassandra o dell’inganno è l’ultima tappa.
L’attrice qui anche regista ha costruito una drammaturgia originale che, partendo dalle tragedie di Eschilo ed Euripide, compie un affascinante percorso intorno alla profetessa troiana – cui Apollo ha dato il dono di prevedere il futuro e, insieme, la condanna di non essere creduta – raccogliendo liberamente suggestioni e riletture da grandi testi e autori di ogni tempo, da Seneca a Christa Wolf, da Omero a Ghiannis Ritsos, fino a Wislawa Szymborska e Pier Paolo Pasolini. In un montaggio avvincente, emerge un ritratto originale di una delle figure femminili del Mito più profondamente tragiche, per l’impotenza e la tremenda solitudine che la connotano nel sostenere il peso della conoscenza.
“Cassandra o dell’inganno”, drammaturgia Elisabetta Pozzi, con la collaborazione di Massimo Fini, regia e interpretazione Elisabetta Pozzi, musiche e disegno luci Daniele D’Angelo, spazio scenico Guido Buganza, movimenti Alessio Romano. Produzione Centro Teatrale Bresciano. A Brescia, Teatro Borsoni, dal 7 al 12 gennaio.
La Compagnia Linga a Lugano
Il LAC di Lugano, l’11 gennaio ospita per la prima volta la Compagnia Linga, pluripremiato ensemble svizzero autore di Semâ, lavoro ispirato alla danza vorticosa e ripetitiva dei dervisci rotanti. Semâ segna la terza tappa di un percorso che esplora le leggi che regolano il movimento di gruppo e la coscienza collettiva dei gesti nello spazio; una creazione che unisce musica dal vivo e coreografia per formazioni organiche, flessibili e fluide.
Dopo Flow (Premio svizzero di danza 2019) e Cosmos (2021), Katarzyna Gdaniec e Marco Cantalupo proseguono la loro collaborazione con il compositore Mathias Delplanque, qui accompagnato dal percussionista Philippe Foch, musicista versatile e “attraversatore di territori” della musica tradizionale, improvvisata ed elettroacustica. Grazie a questa formazione musicale, la Compagnie Linga gioca con l’alchimia che si crea attraverso improbabili incontri artistici e con l’interdipendenza, in continua ricostruzione, tra danzatore e musicista, melodia e gesto.
Persone naturali e strafottenti
Un inno alla tragicommedia ed alla firma di uno tra i più grandi autori, Giuseppe Patroni Griffi, omaggiato dall’OFF/OFF Theatre di Roma, dal 7 al 12 gennaio, con Persone naturali e strafottenti, diretto da Giancarlo Nicoletti nel nuovo e originale allestimento di un grande classico che ha fatto la storia del teatro contemporaneo. Un cast unico, non convenzionale e proveniente dai mondi teatrali più variegati con Marisa Laurito, Giancarlo Nicoletti, Guglielmo Poggi, Livio Beshir.
Quattro solitudini, un appartamento e una notte di Capodanno a Napoli. Donna Violante, la padrona, ex serva in un bordello, discute e litiga con Mariacallàs, un travestito, in bilico fra rassegnazione, ironia, squallore e cattiveria. E ancora, Fred e Byron che sono alla ricerca dell’ebbrezza di una notte: l’uno, uno studente omosessuale alla ricerca di una vita libera dalle paure, l’altro, uno scrittore nero che vorrebbe distruggere il mondo per vendicare le umiliazioni subite. Quattro persone naturali e strafottenti, che, per un gioco del destino, divideranno la loro solitudine con quella degli altri, mentre fuori la città saluta il nuovo anno, fra accese discussioni, recriminazioni, desideri repressi, liti e violenze sessuali.
Come trattenere il respiro
Il testo, inedito in Italia, con la traduzione di Monica Capuani, è contraddistinto dalla cifra ironica e caustica di Zinnie Harris, autrice inglese pluripremiata per i suoi rivoluzionari adattamenti di opere classiche. Al centro della trama Dana, giovane donna immersa nelle contraddizioni del nostro mondo, può essere paragonata a una sorta di Faust contemporaneo e accondiscendente che dopo una notte con uno sconosciuto vede il proprio mondo e le proprie certezze sgretolarsi. Inizia così un viaggio che la dovrebbe portare insieme alla sorella da Berlino ad Alessandria d’Egitto: le due donne attraversano un mondo che si sfalda, che crolla su sé stesso, in una sistematica inversione di ogni regola e di ogni certezza.
«Lo spettacolo – afferma il regista Marco Plini – è una metafora sull’esistenza moderna, sulla finzione in cui viviamo, la finzione della civilizzazione e del controllo sulla propria vita, la finzione della bontà. La visione apocalittica di Zinnie Harris ci mette di fronte a molte delle questioni della vita contemporanea. …Il flusso di situazioni allucinatorie è condotto dall’autrice con un atroce senso ironico, svuotando la metafora di qualsiasi possibilità tragica: una storia in cui il bene e il male si scambiano continuamente di posto. È una metafora sull’esistenza moderna, sulla finzione in cui viviamo, sulla finzione della civilizzazione e del controllo sulla propria vita».
“Come trattenere il respiro”, di Zinnie Harris, traduzione di Monica Capuani, regia Marco Plini, con Fabio Banfo, Luca Cattani, Cecilia Di Donato, Alice Giroldini, Marco Maccieri, disegno luci Fabio Bozzetta, musiche originali Alessandro Deflorio. Produzione Centro Teatrale MaMiMò, Teatro Nazionale di Genova. A Genova, Sala Mercato, dal 7 al 12 gennaio; a Reggio Emilia – Officine Creative Reggiane, dal 15 al 19.
Due sconosciuti in una sala d’attesa
Autore, regista, attore e fondatore della compagnia Monstera, Nicola Russo dirige Alessandro Mor e Gabriele Graham Gasco in Acanto (a Milano, Teatro Franco Parenti, dall’8 al 19 gennaio), una pièce che è un viaggio nei ricordi di due sconosciuti, un uomo e un ragazzo, che si ritrovano nella sala di attesa di un centro di analisi per l’HIV a condividere il tempo prima di essere chiamati. La stanza è abitata da pochi oggetti: due sedie ai lati, rivolte l’una verso l’altra, come allo specchio; al centro un monitor, che segnala i turni per levisite. Un luogo buio, asettico, freddo mentre fuori la natura sembra invadere la città.
“Come vorresti che fosse questo luogo?” chiede uno all’altro, iniziano a pensare uno spazio diverso e più accogliente in cui aspettare, prende vita così un viaggio immaginario che li conduce nei luoghi dell’eros e delle loro prime volte. Cosa succede quando improvvisamente una malattia legata ad un immaginario così tragico si porta via la nostra innocenza? Quali sono le domande giuste da porre e da porsi?
La natura e le architetture evocate dai loro racconti sono ancora lì a creare un percorso alternativo da seguire per trovare cura e salvezza.
Nei luoghi della mente di Christopher Chen
Artisti cross mediali noti a livello internazionale per l’audacia e originalità delle loro creazioni, Lulu Helbæk e Simone Ferrari firmano, per il Teatro Biondo di Palermo, la regia di The Headlands – I luoghi della mente, un noir contemporaneo che esamina la fallibilità della memoria, il nostro modo di relazionarci con essa e le complesse dinamiche dell’immigrazione e dell’integrazione.
Lo spettacolo fonde linguaggio teatrale e cinematografico, creando un’opera che esplora gli eventi attraverso il prisma distorto della memoria. Con un cast prevalentemente composto da attori sino-italiani e asiatici, lo spettacolo elementi di true crime con un profondo esame psicologico e sociale. Mette in discussione le storie che raccontiamo a noi stessi e la veridicità dei ricordi che custodiamo.
Scritto dal drammaturgo sino-americano Christopher Chen, vincitore dell’Obie Award, il testo esplora i modelli psicologici nascosti dietro complessi sistemi di potere. Chen mescola il naturalismo con il teatro dell’assurdo in strutture drammaturgiche caleidoscopiche. Il protagonista, Henry, è un investigatore dilettante appassionato di true crime che decide di risolvere il caso più importante della sua vita: l’omicidio irrisolto di suo padre. Attraverso i ricordi e le storie di famiglia che gli sono state raccontate durante l’infanzia a San Francisco, Henry intraprende un’indagine che diventa un viaggio personale in un labirinto di segreti familiari e inganni.
“The Headlands – I luoghi della mente”, di Christopher Chen, traduzione, adattamento e regia Simone Ferrari & Lulu Helbæk, con Shi Yang Shi, Joshua Maduro, Liyu Jin, Stefania Blandeburgo, Eletta Del Castillo, Francesco Sferrazza Papa, Antonio Alveario, scene Simone Ferrari & Lulu Helbæk, Eleonora Peronetti, costumi Eleonora Peronetti, luci Pasquale Mari, musiche Teho Teardo, progetto video Leandro Summo. Produzione Teatro Biondo Palermo, in collaborazione con Foll.ia. A Palermo, Teatro Biondo, dal 10 al 19 gennaio.
I cioccolatini di Olga
Se la formazione e i più generali caratteri culturali di Philip Roth fanno riferimento al Nord Est di quell’America della quale fin dall’infanzia lui assume in proprio i tratti, le consuetudini, le passioni giovanili proprie di certa popolazione immigrata di più o meno recente generazione -proficuamente insediata in quel contesto d’America – è anche vero che il richiamo delle radici resta forte, e insiste sulle scelte di vita e letterarie dell’autore, e non di rado nell’ampio peregrinare della scrittura lo riporta indietro, in un andare a ritroso attraverso le generazioni.
L’orgia di Praga, apparentemente un’operina, pulsa del desiderio d’appartenenza e condivisione. C’è il riconoscimento di una distanza avvertita e sofferta dal soggetto scrivente, per caso portato dagli eventi in quella terra della sua antica origine, al tempo ancora oppressa dalla violenza della dominazione sovietica. Le figure, faticosamente, stentatamente si aggirano sulla scena dell’opera, quasi fantasmi nella nebbia offuscante di un diritto di sopravvivenza tanto reclamato quanto negato, e pure si stagliano per la nettezza della rappresentazione, e si fanno elementi di configurazione di un più ampio spaccato umano che può facilmente essere assunto a segno di una mortificante conduzione di vita, quasi negazione della vita stessa.
Con I cioccolatini di Olga, la scelta di trarre un’idea di messinscena dagli umori de L’orgia di Praga si lega al desiderio di appuntare lo sguardo su quell’ampio versante d’Europa drammaticamente segnato da espropriazioni di territori e caratteri, di culture, di logos; un’ulteriore occasione di riflessione che pure nel mutato contesto storico-politico degli ultimi decenni cerca di cogliere, nelle leggibili contraddizioni del presente, le tracce di un passato la cui drammaticità non è ancora affidata alla polvere del tempo.
“I cioccolatini di Olga”, liberamente ispirato a L’orgia di Praga di Philip Roth, drammaturgia e regia Laura Angiulli, con Alessandra d’Elia e Antonio Marfella, scena Rosario Squillace, disegno luci Cesare Accetta, illuminotecnica Lucio Sabatino. A Napoli, Galleria Toledo, dall’8 al 13 gennaio.
Nella mente di un sicario
Ispirato alla dark comedy, lo spettacolo racconta di un mondo dove regna il maschilismo e la violenza, un mondo di “machi”. Sono i bassifondi della società dove povertà, disperazione e criminalità viaggiano a braccetto. Solo l’amore diventa l’occasione per cercare di cambiare, e vedere il tutto da una prospettiva diversa, l’occasione per allontanarsi dalla violenza e dalla discriminazione. Ma l’amore spesso è anche un sogno irraggiungibile, è la proiezione di semplici illusioni. E cambiare diventa sempre più difficile.
Il protagonista dello spettacolo abbagliato dalla passione, ci prova a cambiare, ma il passato è dietro l’angolo, pronto a ricordargli com’era. Confrontarsi con la fine dell’illusione, con il tradimento, con la propria anima corrotta lo porteranno alla vera trasformazione e ad una scelta a senso unico.
La pièce tocca diversi livelli di comunicazione: il primo è un rapporto diretto con il pubblico al quale il protagonista confida le sue paure e fragilità e la sua redenzione; il secondo riguarda tutti gli altri personaggi, ciò che rappresentano è tutto quello da cui il protagonista vuole redimersi; e l’ultimo, rappresentato dalla protagonista femminile, è quello della donna che tenta di difendersi ingenuamente da un mondo fatto di uomini predatori e false promesse.
“Il Professionista. Nella mente di un sicario”, scritto e diretto da Tommaso Agnese, con Luigi Di Fiore, Antonino Iuorio, Edoardo Purgatori, Claudia Vismara, e con Paolo Perinelli, Gabriel Zama, Paolo Maras, musiche originali di Stefan Larsen, cura dei movimenti scenici Massimiliano Varrese. Produzione BPresent e Gravity Creations. A Roma, Teatro sala Umberto, dal 7 al 12 gennaio.